Lui che fu un esperto del genere in una delle rarissime interviste, rilasciata nel 1977 (anno della sua morte), dichiarò: “L’horror si costruisce nella mente dello spettatore, bisogna solo suggerirlo, infatti nei miei film non si vede mai ciò che causa paura”.
Maestro del cinema della paura, dunque, di Jacques Tourneur di certo non si possono dimenticare “Il bacio della pantera” (1942), pellicola catalogata tra i classici della Bmovie e con una eccezionale Simone Simon nella sua interpretazione più famosa ; “Ho camminato con uno zombi” (1943), tratto da un racconto di Inez Wallace e con una sequenza finale strepitosa (questa sì da gran spavento); “L’uomo Leopardo” (1943), uno dei migliori lavori prodotti da Val Lewston per la famosa Rko e che, però, la critica lo fa passare per un thriller piuttosto che in un horror.
Come si vuol dimostrare con la retrospettiva che gli ha dedicato la settantesima edizione del Festival di Locarno per la curatela di Roberto Turigliatto e Rinaldo Censi, Jacques Tourneur seppe coltivare più generi con mano sicura ed occhio perspicace. Talmente stimato ed affidabile che – come viene ricordato nel catalogo della prestigiosa rassegna svizzera – quando a Hollywood circolava una sceneggiatura che tutti scartavano, Tourneur se ne prendeva cura e alla fine tirava fuori lavori eccezionali.
Nato nel 1904 a Parigi, si trasferì con la famiglia negli Stati Uniti che era ancora un bambino. Un figlio d’arte fu Tourneur, il papà Maurice diresse una sessantina di film, con lui nel 1933 tornò in Francia e lavorò alle prime regie, ma dopo pochissimi anni, forte anche dell’esperienza acquisita sotto la guida del genitore, ritornò a Hollywood. Nel 1939 girò “Nick Carter”, nella pellicola il famoso detective, interpretato da Walter Pidgeon e creato nel 1886 dalla penna di Ormond G. Smith e John Russell Coryell, è chiamato ad indagare su una serie di furti industriali avvenuti in una fabbrica di aerei.
Riconosciuto nel più poetico cineasta di Hollywood, Tourneur si farà conoscere al pubblico e alla critica per quelle sua predisposizione a “filmare l’invisibile, l’inesprimibile, il non detto, la paura dell’ignoto, l’ambivalenza dei sentimenti. Ogni suo film lascia trapelare uno strato di tensione e instabilità, dove nessuna certezza è possibile…”. Fuoriclasse nel sapere costruire tensione e suspense, Tourneur è diventato autore di culto, che ha aperto nuovi orizzonti al cinema fantastico, per questo ha appassionato cinefili di tutto il mondo e saputo,inoltre, deliziare il pubblico con storie d’avventura affascinanti.
Della settantina di opere elencate nella filmografia di Tourneur andrebbe rivalutata quella sua bellissima serie di western , ad iniziare dai “Conquistatori “(1946) – film con Dana Andrews e Susan Hayward e riconosciuto da Martin Scorsese “in uno dei più sorprendenti e squisiti esempi di questo genere” – ma non si dimentichi “L’alba del gran giorno” (1956), un titolo originalissimo secondo Bertrand Tavernier in cui la folle febbre per l’oro accentua i conflitti tra nordisti e sudisti e dove non si può non tener presente di essere di fronte all’occhio fermo di un autore, che tra l’altro, con perizia ha dribblato gli accattivanti toni del melodramma.