Vidi “il rito” quando uscì in Italia e mi colpì molto. L’ho rivisto e ha continuato a colpirmi. Colpisce, cioè, la mia sensibilità, ma ancora di più mi costringe a riflettere.
Non ho però le motivazioni e il tempo di approfondire molto. Dovrei ripensare i nove capitoli in cui è suddiviso il film, soprattutto dovrei rivederlo. Scrivo, quindi, i pensieri più immediati, quelli che incontro, più o meno, subito.
Il pensiero dominante che contestualizza tutte le possibili articolazioni: è un film libero. Ingmar Bergman si è, cioè, liberato dal Super-io, scaricando il proprio ES con tutta la rabbia che, allora, anno 1967, gli esplodeva dentro per ciò che lui stesso ha descritto nel suo libro “Immagini”: essere stato criticato per ciò che invece aveva creato di “bello” di “vivo”, di “utile” come direttore di teatro al Dramatem.
Questa rabbia l’ha fatta esplodere contro la censura o più in generale contro l’autorità, che processa dall’alto sulla base di pregiudizi codificati, che celano repressioni ed invidie profonde verso chi queste repressioni le esplicita, le rappresenta.
Ecco la figura viscida del giudice resa mirabilmente nel groviglio psichico e sessuale, in cui naviga. Come contraltare altrettanto straordinario gli artisti, che non hanno maschere, se non in scena, che giocano, provocano, si massacrano, si contraddicono, imprevedibili, velenosi, anche infantili.
L’originalità e la nettezza con cui questi personaggi sono disegnati nasce da una scissione, più o meno consapevole, ha scritto Bergman, del regista svedese stesso. Anche in questo caso Bergman ha estremizzato, racchiudendo una zona di se stesso in ognuno di loro.
Ecco quindi Sebastian irresponsabile, dissoluto, imprevedibile, sentimentalmente tormentato, sempre al limite del crollo, creativo, anarchico, avido di piaceri, pigro, amabile, tenero, brutale.
Ecco invece Hans ordinato, disciplinato, responsabile, ragionevole, bonario, paziente, determinato.
Infine Thea, la donna di un triangolo senza gelosie, insopportabilmente sensibile, nevroticamente timorosa nei confronti delle autorità, con ispirazioni improvvise, epilettica, misteriosa, sfuggente.
Un film imprevedibile e dialettico, dove la dialettica è interna ai personaggi e nel contrasto tra loro con una violenza esplicita che tende a smascherare volti e convenzioni,
Un film da camera, dove teatro e cinema si incontrano felicemente. Teatro perché racchiuso tutto in interni, dove la parola è necessaria e essenziale; cinema per la violenza dei montaggi e per quei primi e primissimi piani, che scolpiscono i volti e li rendono indimenticabili. Tutti.
IL RITO (Riten)
Regia Ingmar Bergman
Soggetto Ingmar Bergman
Sceneggiatura Ingmar Bergman
Interpreti e personaggi
Ingrid Thulin: Thea
Anders Ek: Sebastian Fischer
Gunnar Björnstrand: Hans Winkelmann
Erik Hell: giudice Ernst Abrahamsson
Ingmar Bergman: sacerdote
Fotografia Sven Nykvist
Montaggio Siv Lundgren (come Siv Kanälv)
Scenografia Mago
Costumi Mago
Paese Svezia
Anno 1969
Durata 72 minuti