Il vecchio Woody Allen ritorna sul tema di “delitto e castigo”, già sviluppato in Match Point (2005), scrivendo in apparenza una paraboletta di filosofia morale; l’interesse di Allen per la filosofia, e soprattutto la filosofia esistenzialista, è del resto ben noto, fin dai tempi di Amore e Guerra (1975) ed è del resto iscritto nel suo vero cognome, Königsberg. In questo plot, tuttavia, i temi filosofici più manifestamente in superficie parlano molto anche di psicopatologia, forse, della psicopatologia dello stesso Allen.
Il professore di filosofia, ovviamente ebreo (Abe Lucas, interpretato da un improbabile e disfatto Joachim Phoenix) è la caricatura di un intellettuale gravemente depresso (dopo la morte traumatica di un amico) che riversa sui suoi studenti idee nichilistiche, soprattutto in campo morale. Critica perfino l’imperativo categorico kantiano dimostrando ad esempio la necessità di dover mentire, a fin di bene, in alcune circostanze della vita. Lo stato depressivo gli fa bere a dismisura superalcoolici a digiuno e ignorare, contrariamente alle sue abitudini pretgresse, le profferte di una collega e d una studentessa, entrambe, a loro modo, innamorate di lui. Tutto cambia quando, a seguito di un incontro casuale, il professore ha l’“intuizione delirante” della possibilità di compiere un atto estremo che dia di nuovo senso alla sua esistenza; contrariamente all’atto gratuito afinalistico della filosofia esistenzialistica, e a quello giustificato dall’interesse personale di “Delitto e castigo”, si tratta piuttosto di un atto di pseudogiustizia pseudoumanitaria: l’uccisione di un giudice ritenuto corrotto. Contestualmente il professore “vira” in mania, ritrova forza, potenza sessuale, vitalità e gioia di vivere, smette di bere, si gode la collega e accetta la relazione con la giovanissima studentessa.
Il film si dilunga poi con modalità piuttosto tediose e scontate sull’esecuzione del “delitto perfetto” e sulle prevedibili imperfezioni che ne consentono la scoperta. Ma il vero senso della storia è che tutto nel film, delitto, fidanzate e perfino teoria filosofiche, non sono che oggetti utilizzati al fine di sostenere il movimento affettivo espansivo del criminale, un movente troppo spesso ignorato in criminologia. Infatti, come si vede bene alla fine, quando il professore, per non essere denunciato, tenta di uccidere la giovane ragazza, non riuscendoci solo per un caso fortuito (lo stesso che in Match Point consentiva invece al criminale di rimanere ignoto), dimostra di non essere altro che un grande narcisista, incapace di amare, un classico tipo ambiguo, egocentrico e anempatico, insomma, uno psicopatico, o, se vogliamo, come diceva Freud, un “delinquente per senso di colpa”.
La filosofia, in questo come in altri film di Woody Allen, è uno specchietto per le allodole per autogiustificare il potenziale criminale di ciascuno di noi: probabilmente si tratta di un espediente narrativo per far perdere peso psicopatologico ad un’ossessione del regista generalizzandola in un asserzione filosofico-antropologica: la dimostrazione che tutti gli uomini sono egoisti, falsi e potenzialmente criminali. Mal comune mezzo gaudio, insomma, niente di edificante. Ma ciò a cui fa pensare piuttosto il film è che Allen, alla fine della sua carriera e della sua vita, più che fare film, che continua peraltro routinariamente, stancamente, a fare, voglia confessarsi pubblicamente, ricordandoci le molte vicende della sua vita nelle quali, a torto o a ragione, è stato accusato di delitti di vario tipo, e, soprattutto, di scarsa empatia e rispetto per gli altri esseri umani.
Irrational Man di Woody Allen. Con Jamie Blackley, Joaquin Phoenix, Parker Posey, Emma Stone, Meredith Hagner. durata 96 min. – USA 2015