E’ un film su una metropoli, Montreal, ma in particolare su un quartiere di essa.
E’ un film sul tempo: il presente che evoca passato e futuro.
E’ un film poetico, che trova la poesia, pur mantenendo una (giusta) distanza.
E’ un film autoriale più implicito che esplicito, più difficile a cogliersi, ma appunto per questo meno omologabile e consumabile, una volta che si sia fatto proprio.
Champ des possibles si potrebbe forse sintetizzare come poema visivo, come la stessa Cristina Picchi lo ha definito in un’intervista.
C’è una prima parte nostalgicamente luminosa, in cui le parole che si intersecano, la carrellata veloce dal basso verso l’alto di strutture metalliche con la sottolineatura di una musica ascendente evocano piacere e bellezza di un tempo che non c’è più.
Da qui il montaggio contrapposto con il fracasso assordante di ruspe che sbriciolano e demoliscono, la voce fuori campo di un ex carcerato che immaginava un senso enorme di libertà una volta fuori, i rumori di passi di corpi-ombre, i volti di una folla anonima di un metrò che fluisce in un gigantesco anonimato, le luci delle finestre di appartamenti con la voce di donna tranquillamente rassegnata. Tutta questa successione di immagini e voci, rumori e musica diventa una sorta di polifonia visiva della solitudine di una metropoli, senza però accentuazioni ideologiche, con la leggerezza di chi mostra dicendo “così è”.
Il finale, un presente che si proietta verso un futuro incerto, minimalistico, ma aperto. Scolpita cinematograficamente la sequenza delle gru, che, con le loro braccia, i loro fili, i loro ganci, che salgono scendono attraversati da rami e rametti di alberi sfocati, danno il senso di un mutamento sospeso in una visione tra la bellezza nuda dell’immagine e la serialità tecnologica, nostalgica della natura.
E la voce fuori campo di uomo, tra alberi da cui si intravedono le luci della città, con la musica sottilmente liturgica di Giorgio Giampà, ci dice: “La prigione della vita è grande così. Ho provato a superarne i confini, a uscire per respirare il mio ossigeno, non quello degli altri”, a cui succede la voce di donna, che, ricordando altri tempi, termina con questa immagine: “Ed ecco qui che cammino all’alba verso casa… E’ magnifico”, mentre il campo di ripresa si fa lunghissimo e Montreal appare illuminata nella notte per simbolizzare forse la grandezza dell’umanità che qui vive e i misteri dell’esistenza, che essa racchiude e che 14 minuti di filmato possono avere soltanto adombrato.
E tuttavia se pensiamo al precedente corto di Cristina Picchi “Zima” il cortometraggio, premiato in molti festival, ci rendiamo conto come la scommessa della regista lucchese fosse molto più ardua. Una metropoli occidentale è, infatti, molto più invisibile e quindi più difficoltosa da rappresentare di quanto lo siano gli spazi nudi, freddi e disperati della Siberia. Là c’è un’immediatezza della natura e delle esistenze che è più pubblica; qui, invece, nella metropoli canadese rimane assai nascosta dentro gli alveari dove vivono gli umani, dove non è facile penetrare. Cristina Picchi, per certi versi, c’è riuscita. Non con la sociologia, ma nell’unico modo forse possibile, in un corto come questo: con la poesia.
Champ des possibles di Cristina Picchi. Musiche di Giorgio Giampà. Durata: 14 minuti