di Ilaria Sabbatini
E’ l’ultimo giorno del festival dei popoli. Per disorganizzazione mi sono persa alcuni dei film che volevo vedere e mentre ragiono su come recuperarli capisco che sto tirando le fila di un’esperienza. Mi sono chiesta perché un’appassionata di cinema come me abbia scelto proprio un festival del documentario piuttosto che altre kermesses più blasonate. E la risposta l’ho trovata per l’appunto durante questa settimana. Non mi interessa di intavolare un confronto tra fiction e documentario: molto più semplicemente vorrei condividere, almeno in parte, quello che ho ricevuto in questi giorni.
Il fondamento di tutto il festival consiste nella possibilità di conoscere le vicende degli altri attraverso racconti per immagini che la desolante condizione del sistema televisivo – ma anche cinematografico – continua a sottrarci. Ascoltare l’Iran raccontato da iraniani, l’Armenia da armeni o Israele da israeliani è molto più che leggerne dai giornali. Lo strumento della narrazione visiva, oltre a fornire una testimonianza immediata, comunica una riflessione sul sé che si compie proprio nel dialogo con l’osservatore. Ed è proprio questo il punto di forza. Poter ascoltare le storie di persone che vogliono far conoscere la propria condizione, che vogliono comunicare la situazione del loro paese. Che cercano, rischiando in prima persona, un confronto capace di produrre testimonianze straordinarie.
Non è solo ammirazione quella che si prova nel vedere Mehran Tamadon mentre intervista i Basidji, le guardie della rivoluzione iraniana; né solo stupore nel seguire l’inchiesta dell’israeliano Yoav Shamir sulle contraddizioni del proprio paese. Il distacco della cronaca si trasforma in un coinvolgimento tanto profondo da mettere in discussione le proprie certezze. Così, l’idea che mi assilla rientrando, è che Tamadon e Shamir, ma anche Naruna Kaplan (Depuis Tel Aviv), Nahid Sarvestani (The Queen and I), Alberto Arce (To shoot an elephant) e tutti quelli che hanno raccontato con lucidità e passione il proprio presente, debbano essere conosciuti. Noi europei abbiamo bisogno di ascoltare loro quanto loro hanno bisogno di raccontare sé stessi. Perché quanto raccontano è di fondamentale importanza per noi, qui e ora.
Domani si ritornerà a casa con il pensiero di ciò che si è visto e degli incontri che si sono fatti. Si riorganizzerà il lavoro e si ripartirà. E’ ovvio che questa sia stata una settimana di grazia, in cui potersi concedere una relativa emancipazione dai propri vincoli culturali. Ma è altrettanto ovvio che da domani mancherà qualcosa. Qualcosa di cui non si sente il bisogno prima di sapere che esista. Qualcosa che diventa irrinunciabile dopo averne fatto esperienza. Ed è l’esercizio di una radicale alterità che, nel dialogo, ti stimola costringendoti ad affrontare le contraddizioni profonde delle tue convinzioni, mettendoti di fronte a problemi che non puoi più risolvere con giudizi facili.
Firenze, con il suo festival, non ha niente di fantasmagorico: semplicemente c’è e permette di guardare oltre. Una finestra sul mondo esterno da cui sporgersi oltre il limite di confini che imprigionano noi più di quanto non tengano distanti gli altri. Opere come queste, rinunciando a qualsiasi retorica, aprono l’occhio della videocamera laddove noi non siamo in grado di arrivare. E inesorabilmente cambiano la percezione della complessità in cui viviamo arricchendo la nostra consapevolezza. La nostra televisione e il nostro cinema potrebbero aprirsi con profitto a questi nuovi sguardi. In fondo perché si dovrebbe pensare quello dei media come un sistema immutabile? Potrebbe perfino rivelarsi una soluzione a loro conveniente.