Ti prende alla sprovvista. Ti porta avanti, indietro, dentro e fuori. In sostanza questo film ti trascina con sé. Nella profonda e arguta fantasia del regista, dentro la “sua” storia pensata, quella della sua testa viaggiante. Si capisce la portata della narrazione dal fatto che si tratta di un film difficile da raccontare; si può esprimere emozionalmente, ma il racconto della trama si esaurirebbe in poche parole, facendo perdere gran parte del suo significato.
Il film è reso attraente dall’ambientazione all’interno di un teatro, di cui partecipiamo le scene e la vita, vivendone i retroscena e le sofferenze. Per lungo tempo il punto di vista dello spettatore oscilla fra il palco del teatro ed i suoi sotterranei. Quasi si tocca la polvere delle assi del proscenio ed il caldo delle luci di scena, mentre gli attori eseguono le prove. Dopodichè si scende sotto, nei camerini, nella sartoria, fra i corridoi asfittici e trasudanti passioni e timori di uno spettacolo ancora da rappresentare e di cui non se ne possono prevedere le sorti.
La vita del protagonista è lo spettacolo che deve essere rappresentato. Non sappiamo cosa accadrà e cosa ne sarà di lui. Nel frattempo, noi, lentamente, entriamo nella strana ed affascinante e perturbante personalità dell’attore principale. E soprattutto nei meandri psicologici di noi stessi o dei personaggi (non fa la differenza) suggeriti da ciò che sta per andare in scena: Di cosa parliamo quando parliamo di amore , un racconto di Raymond Carver che apre le pieghe dell’anima e della psiche e mette in mostra le profondità più recondite con parole limpide taglienti ed efficaci. Parole che passando dalla narrazione scritta alla espressione teatrale acquistano ulteriore portata e drammaticità.
Ma poi, da questa più sanguigna e passionale realtà, noi spettatori veniamo trasportati – attraverso la quasi lucida follia del protagonista e la immaginifica espressività del regista – su una altro livello. Onirico? Fantastico? Assurdo? Paradossale? Non lo sappiamo, forse di tutto un po’. Fatto sta che ci piace e che si armonizza con tutto il resto: è questa la REGIA in senso letterale, il concertare, l’articolare il proprio pensiero e poi riuscire a rappresentarlo con tutte le licenze poetiche del caso, da vero regista/artista.
Nella recensione di Dafne qui sopra c’è un’adesione emozionale e sensitiva, culturale e infine cinematografica, che senza raccontare il film, ce lo evoca in modo suggestivo.
Aggiungo altre impressioni, che si pongono interrogative di fronte alla pellicola di Alejandro González Iñárritu con una premessa.
Uscendo dalla sala l’amico mi ha detto: “ Uhhh! Troppo dialogato, troppo urlato. Oggi piace, domani sparirà”; l’amica invece:” E’ un buon film, ma anche furbo”.
Questo della furbizia-abilità si ritrova presente anche in alcune recensioni di critici autorevoli.
Il mio giudizio: dovrei rivederlo.
Perché? Perché vedendolo sono stato anch’io un po’ travolto: sorpreso e anche divertito.
Sorpreso dal linguaggio: quel lunghi piani sequenza, quell’agilità virtuosistica della macchina da presa, quelle carrellate avanti e indietro nei cunicoli del teatro, quegli scontri feroci dei campo-controcampo.
Sorpreso dai lunghi dialoghi secchi, violenti e intelligenti, dietro cui c’è lo spessore di personaggi a più dimensioni.
Sorpreso dai due interpreti principali: Michael Keaton e Edward Norton, perché riescono a dare ai loro personaggi la forza di personalità complesse: violente e fragili, determinate e smaglianti, in certe fasi, spettacolari come si conviene a due personaggi-attori.
Sorpreso dalle scene surreali, che inizialmente mi sono parse fuorvianti, ma che poi posano i piedi per terra mescolando bene immaginario e realtà.
E divertito, oltre che per certe sorprese, anche per una sequenza: la scena di lui (Birdman per intenderci) che, in mutande, attraversa la metropoli con i cellulari della gente divertita che lo fotografa; scena comica, che nasce da una necessità, non è una strizzatina all’occhio dello spettatore.
E’ infine un film dove il protagonista vive un’ossessione: voler essere considerato un attore vero e che scopre, durante la durata del film, un’altra ragione di crisi esistenziale : non essere stato per niente un buon padre e a ricordarglielo è la figlia, ex tossica, a cui Emma Stone dona fragilità, cinismo e grazia.
Sullo sfondo, più implicito che esplicito, la società dell’apparenza, dove ciò che conta è dato dalla visibilità virtuale dei social media e non, invece, da chi cerca verità e poesia.
BIRDMAN
Titolo originale Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance)
Regia Alejandro González Iñárritu
Sceneggiatura Alejandro González Iñárritu, Nicolás Giacobone, Alexander Dinelaris, Armando Bo
Fotografia Emmanuel Lubezki
Montaggio Douglas Crise, Stephen Mirrione
Musiche Antonio Sánchez
Scenografia Kevin Thompson
Costumi Albert Wolsky
Interpreti e personaggi
Michael Keaton: Riggan Thomson
Zach Galifianakis: Jake
Edward Norton: Mike Shiner
Emma Stone: Sam Thomson
Andrea Riseborough: Laura
Amy Ryan: Sylvia Thomson
Naomi Watts: Lesley
Stati Uniti d’America, 2014
Durata 119 min