di Gianni Quilici
Uno dei meriti di questa edizione di Lucca Film Festival è stato presentare Lou Castel, dopo Pierre Clementi nel 2008, con alcuni film poco o per niente visti, oltre ad alcuni famosissimi.
Vedendoli ho pensato che c’è un Lou Castel prima del 68, uno durante il 68 ed infine uno dopo.
Il primo Lou Castel è il volto simbolo della rivolta individuale ed esistenziale pre-sessantotto, o meglio degli anni ’60. “I pugni in tasca”, infatti, già dal titolo simbolizza come nessun altro film italiano (e forse europeo), questa condizione. Perché ci sono gli anni ’60 in una provincia cupa e senza orizzonti ed un personaggio, Ale, che raccoglie sia la violenza omicida e l’attrazione verso la morte, l’impotenza e l’astratto furore sia la solitudine e la timidezza, l’entusiasmo verso l’esistere ed un’istrionica e teatrale ironia, che gli dà una dimensione estetica e metaforica ben oltre il neo-realismo. E Castel -scrive Maddalena Ferrari– “algido biondo dagli occhi azzurri, è la ribellione che la sua generazione si porta dentro, una tensione repressa, ma continuamente viva, ribollente, pronta a esplodere. E Bellocchio lo scrittura grazie ad un contrattempo capitato durante il provino, in seguito al quale Castel scoppia a ridere di un riso irrefrenabile. E’ quella risata isterica, che si ripeterà in diverse scene del film, a convincere il regista. E non è un episodio insignificante, perché dice quanto un attore come Castel portasse se stesso nel personaggio; infatti Bellocchio confessa (1) di aver adattato la figura di Ale inizialmente pensata alle caratteristiche dell’interprete, che ha un aspetto apparentemente mite, dolce, ma coltiva dentro di sé una rabbia esasperata; e l’epilessia di cui il personaggio soffre è l’equivalente di un disagio estremo, prima e al di là della politica, che si può solo sfogare e non incanalare in un percorso o progetto”.
C’è poi il Lou Castel sessantottino che si nega come attore, che aderisce a gruppi di estrema sinistra e che verrà cacciato, attraverso una brutale operazione di polizia, dal nostro paese per qualche anno. Questo Lou Castel non lo conosco, ma l’ho potuto immaginare attraverso il bellissimo ritratto che ne faceva Pier Paolo Pasolini (pubblicato sul catalogo del Festival).
Scriveva Pasolini: “Aderendo a gruppi antiparlamentari Lou Castel ha portato tutto se stesso nella lotta: ha dato, credo, tutto ciò che guadagnava col suo lavoro, non si è mai tirato indietro. Non ha mai peccato di omissione, non è mai venuto meno al più assoluto rigore(…)” ma aggiungeva “il livello culturale della nostra società è così basso che l’autenticità del valore umano non solo non viene percepita, ma al contrario viene percepita come scandalo. L’uomo puro, rigoroso, altruista, disperatamente idealista viene considerato colpevole, solo perché le sue migliori qualità spingono all’estremo le sue opinioni politiche”.
Il terzo Lou Castel l’ho immaginato così come l’ho percepito in un bellissimo mediometraggio “Quarzell dit Castel” di Joanna Grudzinska ed è simile a come l’ho (intra)visto nei due incontri con il pubblico qui a Lucca Film Festival: capelli lunghi, bianchi e sciolti fino alle spalle, un volto abbandonato, apparentemente senza difese, una voce morbida, ricerca della sintesi nell’eloquio.
“Quarzell dit Castel” è un film-confessione, che supera però ogni naturalismo, evidenziando i corpi protagonisti, Lou Castel ed una (bravissima) bambina-adolescente, anche come corpi di un teatro, che qui ha la scenografia di un palazzo con un semplice prato. Teatro che si fa cinema: nella recitazione di Lou Castel (ma anche della bambina) distaccata, quasi lontana da sé, come se raccontasse un sogno, in un modo che (mi) ricorda il Marlon Brando di “Ultimo tango a Parigi”; nella sceneggiatura che “recita” la confessione, inframmezzandola ad altro; in una presenza autoriale della cinepresa e del montaggio, che si allontanano, si avvicinano, staccano secondo un punto di vista. Particolarmente bella per il livello di intensità intellettuale la sequenza in cui Lou Castel racconta la gioia di aver scoperto, alla fine degli anni ’80, la sua voce, che fino ad allora era stata doppiata.
(1) da “L’avventurosa storia del cinema italiano” a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi. EdizioneFeltrinelli