di Riccardo Dalle Luche
Anni fa ero intervenuto sul cinema di Lars von Trier in varie occasioni, parlando alla fine delle analisi di “poetica del martirio”. Sulle pagine de “La linea” (n.50, 2004), scrivevo:
“La spoliazione del cinema da tutte le sue convenzioni trasforma [le pellicole di Lars von Trier] in veri e propri esperimenti sul potere della visione, in opposizione ad ogni esigenza di entertainment. Questo cinema è inconsumabile e ci resta dentro, come afferma von Trier in uno dei suoi interventi teorici, come un sasso in una scarpa. Eludendo completamente l’horror, è un cinema sull’orrore dell’esistenza, uno dei tanti affetti speciali che normalmente teniamo a dovuta distanza. Il martirio dei suoi personaggi coincide col martirio dello spettatore, con la sua morte come consumatore e la sua rinascita come soggetto morale.”
Diciamo subito che quest’ultima pellicola di Lars von Trier si situa in continuità con le opere maggiori dell’estremo e provocatorio regista danese, “Breaking the Waves”, “Dancer in the Darek”, “Dogville” ed anche il serial “The kingdom”, sia dal punto di vista formale che di contenuto. “Antichrist”, anzi, nel suo totale estremismo, le sussume e ne sviluppa il magistero realizzativo, la poetica autoriale e la spietata analisi delle relazioni d’amore, in funzione di una riflessione transpersonale, cosmico-antropologica, sul sadismo delle relazioni interpersonali e sul carattere inesorabile e inevitabile del Male in genere.
Non voglio qui soffermarmi sulla magistrale messa in scena di “Antichrist” (altri l’hanno già fatto e lo faranno a lungo); basti dire che Lars mostra ancora una volta il suo virtuosismo, sia nella spietata e fantastica direzione degli attori (Charlotte Gainsburg, Willelm Dafoe), sia nell’impiego della macchina a mano, dei siparietti ed effetti digitali, delle inserzioni pornografiche etc,. per raccontare la solita storia d’amore e morte che scava nelle profondità più distruttive della mente maschile e femminile.
Se si dovesse classificare il genere di questo film si potrebbe parlare con lo stesso diritto di (iper)realismo magico, di melodramma-gotico, di apologo religioso, di porno-horror. Lars von Trier coniuga qui per la prima volta la sua poetica dell’orrore con alcuni stilemi del cinema horror e addirittura splatter. Il film si lascia vedere su questi diversi piani paralleli ed obbliga, per i numerosi segni linguistici, iconici e simbolici, misteriosi e provocatori, che Lars dissemina nella trama, a nuove visioni e tentativi di decifrazione ermeneutica.
La storia parte dalla crisi di una coppia conseguente alla morte del loro bambino: a questo livello base assomiglia alla morettiana Stanza del figlio, segue la traccia di una difficile e forse impossibile elaborazione del lutto colpevole (il bambino cade da una finestra mentre i genitori fanno l’amore e si schianta al momento del loro reciproco orgasmo). Grief, Pain, Caos.. sono le Stanze di questa via crucis interpersonale. Lui, uno psicoterapeuta, trasgredendo la regola di non curare i parenti, convince la moglie a sottrarsi alle cure mediche, facendole gettare i farmaci nel cesso, sulla base dell’assunto che il dolore è una riposta naturale. Vediamo cosi lei attraversare tutte le fasi del più atroce dolore del lutto, del panico, delle fobie, delle crisi di pianto e aggressività, delle rivendicazioni eterodirette, delle spinte erotiche disperate. Lui applica le sue tecniche canoniche (di respirazione, suggestioni ipnotiche, rêve eveillée, gerarchizzazione dei sintomi) per lenire la sofferenza della compagna con ingenua dedizione. Abbozza uno schema delle paure di lei, capendo solo ad una fase molto avanzata del percorso che ciò di cui lei ha veramente paura non è il bosco della loro dimora di campagna (denominata sardonicamente Eden), con le arcane apparizioni numinose della Natura selvaggia, ma proprio della sua stessa aggressività feroce e stregonesca, che di questa natura numinosa e satanica è parte integrante.
Qui compare l’elemento magico, burlesco e ironico, rappresentato dai tre beggars (viandanti, burloni, mendicanti): un cerbiatto, un lupo e un corvo, che rappresentano anche tre misteriose (e inesistenti) costellazioni. La moglie, che lavorava ad una tesi sulla storia dei Ginocidi (cioè ella persecuzione e dello sterminio delle donne-streghe), finisce per incarnare una di queste donne (un tema già ripreso ne “La visione del Sabba” di Bellocchio/Fagioli), ribellandosi con una violenza sadicamente inaudita al tentativo di cura/contenimento del marito che, dopo un escalation splatter, si vede costretto a fare fuori la moglie con le sue stesse mani e a bruciarla su un rogo. Tuttavia, mentre Lui, acciaccato ma vivo, ritorna alla civiltà, nell’Epilogo, si vedrà attorniato da migliaia e migliaia di altre donne, come dire che tutto quanto ha dovuto fare per fare fuori una strega è stato una semplice goccia nel mare.
Tutto questo materiale apparentemente bizzarro e informe è riscattato, come si è detto, dalla perfetta congruenza registica di Lars von Trier (che nel mescolare elementi raccapriccianti e bellissime e perfino poetiche immagini, talora elaborate elettronicamente, richiama certo Kim Ki Duk): il film si lascia vedere e perfino appassiona (quando, ovviamente, non disgusta) fino alla fine.
A proposito di qualche elemento estremo, porno e porno-splatter, qualche critico ha parlato di umorismo involontario: io inviterei invece a riflettere sulla motivazione autoriale e a pensare che il riso sardonico può anche essere una difesa dello spettatore rispetto all’insopportabilità dei contenuti, che peraltro mantengono la loro totale significanza se si evita ingenuamente di considerarli realistici.
Il punto veramente scandaloso di questo film non sta certamente in queste scene, quanto nel Lars von Trier-pensiero sulle donne: ciò che la protagonista scopre in se stessa, riprendendo sulla propria carne lavoro interrotto sul Ginocidio, è che le donne-streghe vogliono essere martorizzate. L’ombelico del film sta infatti nella “guarigione” dal panico di Lei, che non va nella direzione normalizzante attesa dal marito-terapeuta, ma nella ricerca del martirio masochistico assoluto che si esprime nella scena più raccapricciante del film, quella della autoinfibulazione (o autoclitoridectomia che dir si voglia) e, successivamente, nel crescendo sadico-agressivo che non può non condurre Lui a ucciderla per difendersi. Questo punto è così scandaloso da essere stato scotomizzato e travisato perfino dalla critica più attenta (si veda la recensione di Roy Menarini su “Segnocinema” 158). Ciò che l’eroica protagonista compie in questo film è, in modo più esplicito, quanto fanno Bessy in “Breaking the Waves”, e la madre cieca di “Dancer in the Dark”.
Ciò che nevrotizza le donne e i loro rapporti, per Lars von Trier, è il masochismo primario, coperto da tutti i possibili fattori culturali e formazioni reattive: la paura della loro stessa aggressività, che trascina inesorabilmente l’autoespiazione e il martirio. La donna, in quanto Natura, non può non essere l’espressione di Satana: questa è, ad un altro livello, la formulazione della stessa idea.
Come psichiatra devo riconoscere a questa idea portante e folle del Lars von Trier-pensiero, una non trascurabile validità clinica (ciò che vediamo in forme di regola meno estreme nelle corsie dei nostri ospedali) ed ancora una volta dobbiamo ammettere in un Autore una conoscenza psicopatologica più profonda di ogni teoria psicologica esistente.
“Antichrist” ha fatto e farà parlare a lungo: resterà nella storia del cinema in quel luogo inclassificabile delle opere più maledette, dal “Salò” di Pasolini, a “Ciao maschio” di Ferreri, al primo “Funny Games” di Haneke, a “L’arco” e altri film meno noti di Kim Ki Duk.
titolo originale: Antichrist
nazione: Danimarca / Germania / Francia / Italia
anno: 2008
regia: Lars von Trier
durata: 104 min.
distribuzione: Key Films
cast: Wiliam Dafoe • Charlotte Gainsbourg
sceneggiatura: Lars von Trier
fotografia: Anthony Dod Mantle
montaggio: Anders Refn
Danimarca / Germania / Francia / Italia – 2008