“Lo sguardo di Michelangelo Antonioni e le arti” a cura di Dominique Païni

di Gianni Quilici
La mostra di Ferrara su Michelangelo Antonioni suscita il desiderio di ri-vedere i suoi film. Perché Antonioni è un regista dallo stile inconfondibile, che ha contagiato, influenzato non solo i registi italiani, ma internazionalmente. Si pensi a registi come Wenders, Jarmush, Wong Kar-wai, Tsai Ming-liang. Perché Antonioni può apparire, anche a chi lo ha studiato a lungo e a fondo, un soggetto ancora misterioso o, comunque, una miniera da cui attingere visioni, linguaggi, idee cinematografiche.
La mostra di Palazzo Diamanti queste suggestioni le può provocare sia allo studioso (anche per i materiali inediti) che al neofita.
Innanzitutto è ben strutturata. Sono una decina di sale aperte che si susseguono una dopo l’altra, stanze raccolte con una discreta illuminazione, che favoriscono la concentrazione e una visione confortevole. Con una sorpresa: la mostra continua uscendo su un prato, dove è stato allestito un campo da tennis simile a quello di Blow up, da cui si accede alle ultime due sale, dove è esposto l’ultimo Antonioni, forse le uniche un po’ sbrigative.
La mostra è articolata in 11 percorsi: Nebbie, Deserti, Realtà, Lucia Bosè, Scomparse, Monica Vitti, I colori del mondo e dei sentimenti, Simulazioni, La montagna incantata, Altrove, Identificazione di un Maestro, che abbracciano l’intera opera di Antonioni: da Gente del Po a Lo sguardo di Michelangelo, sottolineandone gli intrecci, le svolte linguistiche, ambientali, tematiche.
Proviamo a percorrerla come se fosse un blog di immagini. Ecco dunque l’esistenza dura e poverissima, ma autentica, di pescatori-contadini, che vivono sulle sponde del Po e la noia, gli amori, il nichilismo della borghesia del dopoguerra; la nebbia metaforica della nativa Val Padana e la condizione di estraneità all’ombra dei grattacieli della stagione del boom; la bellezza conturbante di Lucia Bosè e la bellezza solare e sfuggente di Monica Vitti; i parchi londinesi verdeggianti e sospesi da un fremito di mistero e il fascino silenzioso dei rilievi delle Montagne Incantate; la nudità polverosa e soffocante dei deserti africani e quella avventurosa e aperta all’utopia dei deserti americani; la bellezza adolescenziale e selvaggia di Maria Schneider e quella matura e enigmatica di Vanessa Redgrave; l’urlo di impotenza di Jack Nicholson e lo sguardo febbrile di David Hemmings; la pallina da tennis che si vede-non si vede come ambiguità del reale e la villa che salta in aria, ancora e ancora in un’orgia di esplosioni come rifiuto e rivolta.
Ma tutto quanto lo vediamo attraverso diversi strumenti e molteplici linguaggi, che si integrano con una loro specificità.
Materiale centrale, naturalmente, le video-sequenze dei film, che colgono gli snodi essenziali e utili, si siano viste o meno le pellicole, per calarci nelle atmosfere antonioniane.
Ecco allora le sceneggiature originali, battute a macchina, cancellate con correzioni a mano; ecco libri e oggetti personali del regista (la Nikon, la cinepresa, album di musica), ecco i ritagli di articoli di riviste o di quotidiani dell’epoca, con passaggi, a volte, evidenziati a penna, premi ai film e alla carriera.
Ecco le lettere e cartoline di amici, tutte interessanti, di Fellini e Visconti, di Sciascia e Calvino, di Tarkovskij e Barthes, di Mastroianni e Delon, di Flaiano e Fortini. Per esempio Federico Fellini, dopo aver visto Professione reporter, scrive ad Antonioni: «Dopo aver passato due ore in tua compagnia ed aver vissuto come in sogno le tue angosce voglio dirti, anche rozzamente magari, che dei tuoi film che ho visto, questo mi sembra, il più compiuto, il più puro, il più essenziale. Sincero fino a farmi provare imbarazzo»
E Roland Barthes. “Vorrei, caro Antonioni, che tu mi prestassi per un attimo qualche tratto della tua opera per permettermi di fissare le tre forze, o, se preferisci, le tre virtù che ai miei occhi costituiscono l’artista. Le dico subito: la vigilanza, la saggezza e la più paradossale di tutte, la fragilità” O Umberto Eco, a proposito della mancata trasposizione di In nome della rosa da parte del regista ferrarese, mette “subito in chiaro” che “io non sento risentimento ma al contrario molta gratitudine per l’entusiasmo con cui ti eri buttato sul mio libro. So benissimo che se non ce l’hai fatta non è stato per colpa tua e sarei stato felice se la cosa fosse andata in porto”. Oppure la lettera affettuosamente e sottilmente critica di Franco Fortini a proposito sia del personaggio di Giuliana in “Deserto Rosso”, non definito dal punto di vista sociologico, sia del filo narrativo, che trova inconsistente.
Ecco i quadri esposti nella Mostra, che hanno tutti una relazione precisa con immagini di film: dalle scenografie metafisiche di De Chirico, al quadro “Tutti morti, dello stesso anno” di Mario Schifano, che Antonioni capovolge da “tutti morti” in una immaginaria copulazione collettiva in Zabriskie Point; dal vitalismo caotico di Pollock alle nature morte di Morandi; dall’astrattismo colorato di Rothko alle visioni disumanizzate di Mario Sironi.
Ecco le numerosissime foto di scena compresi gli scatti di Bruce Davidson, della agenzia Magnum, la video installazione dell’artista francese Alain Fleischer, montaggio di fotografie su Lucia Bosè del Fondo Antonioni, scattate durante le riprese di Cronaca di un amore e La signora senza camelie; i provini realizzati a Monica Vitti per Il deserto rosso, durante i quali il regista guida l’attrice attraverso innumerevoli metamorfosi, giocando con abiti e acconciature diverse.
C’i sono comunque dei fili comuni, che percorrono l’intera mostra: l’inquietudine espressiva che porta il regista ferrarese a sperimentare continuamente. Abbiamo così la ricerca cromatica-narrativa sul bianco e nero prima e sul colore dopo, con lo scopo, sempre, di sottolineare con forza la nettezza dei contrasti. Abbiamo con Il mistero di Oberwald un regista cinematografico che realizza, per la prima volta, un film usando le tecnologie video della televisione. Infine abbiamo l’Antonioni pittore che da piccolissime opere ad acquarello realizza enormi ingrandimenti fotografici, che diventano paesaggi del sentimento.
E c’è, infine, l’inquietudine esistenziale, che non è soltanto l’Antonioni maestro riconosciuto unanimemente come sottile esploratore dell’animo umano, che fa di lui un regista moderno e internazionale; c’è pure l’Antonioni interessato ad altre terre e culture: dalla cultura pop nella Londra di metà degli anni ’60 alla rivolta politico-esistenziale negli USA fine anni ’60; dalla Cina della rivoluzione culturale cinese all’India del suo affascinante misticismo religioso.

da Loschermo.it



Layout 1Lo sguardo di Michelangelo Antonioni e le arti”
Palazzo dei Diamanti a Ferrara fino al 9 giugno 2013
a cura di Dominique Païni
Evento organizzato dalla Fondazione Ferrara Arte e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara-Museo Michelangelo Antonioni, in collaborazione con la Fondazione Cineteca di Bologna.


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