di Beniamino Biondi
Un giovane e colto studente coreano si rende colpevole di alcuni delitti a sfondo sessuale contro due ragazze giapponesi e viene condannato all’impiccagione. Ma l’azione fallisce, l’uomo non muore e perde la memoria. Per riconoscerlo alla propria identità, i burocrati della giustizia tentano un recupero inscenando i delitti e le atrocità da lui commessi. Il giovane recupera la memoria e l’impiccagione può avvenire, ma la botola si apre nuovamente e lui precipita nel vuoto lasciando il cappio vuoto.
Opera in qualche modo prodromica al ’68 e sintesi di umori politici e ossessioni personali, “L’impiccagione” narra il conflitto fra individuo e stato: la legge che si riconduce ad un principio di realtà pratica (e condivisa) che per imporsi necessita di un manipolo di giullari burocratizzati che mimano come servi stolti i gesti del ragazzo (il potere come sistema di perversioni) dimostrando come il rigore astratto della norma legale ricorra ad una pratica imputridita dai medesimi delitti sociali (l’irragionevolezza individuale, l’anarchismo, l’immoralità) che ambirebbe fuggire; il giovane che assurge a simbolo dell’immaginazione – se pur indotta al potere – attraverso l’eversione violenta del subconscio (e qui il discorso suggerisce ulteriori livelli di lettura) e della riconduzione ad atto rivoluzionario della propria ammissione di colpa.
Uno degli Oshima più disturbanti, grottesca parabola del potere come prestanza di folli, narrazione potente che non rinunciando ad estremi simbolismi si rivolta contro lo stato irridendo macabramente la legge coi modi di una fiaba visionaria e crudele. Capolavoro.