“Io sono Li” di Andrea Segre c’immerge in un mondo di fantasmi che galleggiano, si muovono in un universo acquatico, leggeri eppure grevi, fatti di una fisicità trascorsa, di un linguaggio remoto che abbisogna di didascalie per essere compreso, dove il cinese e il dialetto chiozzotto suonano come due lingue egualmente straniere, incomprensibili allo spettatore.
E lei è Li, la protagonista cinese, operaia tessile che aspetta l’arrivo del figlio dalla Cina, spostandosi su e giù per l’Italia dietro comando dei padroni e disposta a fare un po’ tutti i lavori che le vengono imposti, ieri a Roma davanti ad una macchina da cucire, oggi a Chioggia dietro il bancone di un caffè anni sessanta, con tavolini quadrati e biliardo.
Chioggia, bellissima e trasparente, sempre lontana, con una laguna diafana che prelude al mare aperto eppure lo nega nella sua terribilità, lo rende familiare, lo rende praticabile come una pozza d’acqua dove si va a mezza gamba. Il mare è una laguna sotto casa e le persone che si muovono per le strade o nel bar sono figurine leggere come l’aria, capaci di camminare sul pelo dell’acqua.
Si tratta di un evidente scenario di morte, sempre adombrata dalla presenza e dal protagonismo assoluto dei vecchi. I vecchi parlano, i bambini tacciono. Le tematiche dei loro discorsi sono attualissime, si discute di cinesi e di Obama, ma la loro ideologia è decrepita, impedisce loro di capire i fenomeni contemporanei, l’economia dei soldi che producono soldi senza lavorare. Il più acculturato del gruppo si avventura in asserzioni astruse, al limite della stupidità. Siamo immersi nel leghismo diffuso, minuto e imbelle, ma anche prepotente e violento nelle figure più giovani. E’ il leghismo degli sconfitti, degli indebitati, di chi dopo una vita di lavoro non possiede che una barca rattoppata. E’ il leghismo della nostalgia: mio padre era pescatore e anche mio nonno e il nonno di mio nonno.
Su quest’acqua tremolano fiammelle racchiuse in fiori di carta, rossi e gialli, che scivolano in superficie, palpitando di chiarore come lucciole nella notte. Sono i lumini della festa del Poeta. Il poeta per eccellenza, Qu Yuan, il primo poeta riconosciuto dai cinesi, morto suicida nelle acque del fiume Miluo. E la protagonista lo festeggia come può, anche accendendo fiori di carta, galleggianti sull’acqua di una vasca da bagno.
Fuoco su acqua, fuoco fatuo della Poesia che fa avvicinare la ragazza e il vecchio Bepi, pescatore di Pola, famoso per le sue rime estemporanee:
E’ venuta dall’Oriente
Per servire la mia gente.
La parla poco italiano
Ma i skei ell li ha bell in mano!
Nasce un amore ingenuo fra il vecchio e la ragazza, un amore fatto di reminiscenze, di presenze lontane, di attese incerte, un amore contrastato dai pregiudizi cinesi e chiozzotti.
E quando Bepi muore, scrive una lettera-testamento per Li, nella quale le lascia in eredità il “casone” cioè la baracca di legno galleggiante sulla laguna, il suo casotto del pescatore.
Li vi si avvicina in barca con una tanica di kerosene a bordo, cosparge il casone del liquido infiammabile e vi lancia una torcia da lontano. Si sente lo scoppio dell’incendio e si vede il volto di Li illuminato dai bagliori, poi la camera gira lentamente e riprende in campo lungo la baracca avvolta nelle fiamme, e ti sembra di vedere quel fiore di carta rosso e giallo che palpita di bagliori incerti, come i versi del Poeta che sopravvivono sul mare della morte.