di Riccardo Dalle Luche
“Arirang” è una canzone popolarissima in Corea, qualcosa che ha a che fare con lo spirito nazionale come, da noi, per dire, “O sole mio”. E’ una canzone melanconica, che parla di abbandoni e solitudini; il geniale regista coreano Kim Ki-Duk, in preda ad una profonda depressione, ritiratosi in una baracca di un villaggio di montagna, la canta più volte in modo straziante (anche perchè è incorreggibilmente stonato) davanti alla propria videocamera.
“Arirang” è il reportage autoprodotto e autorealizzato, cioè un film d’autore fatto in modo totalmente solitario dall’autore, di una crisi personale e creativa drammatica, successiva ad una situazione traumatica (una sua attrice in “Dream” ha rischiato di restare impiccata mentre girava una scena) e da un tradimento artistico (due sue aiuti hanno accettato contratti da case di produzioni americane); almeno questo viene confessato alla propria videocamera.
KKD mette in scena se stesso e controfigure di se stesso (la sua ombra proiettata sullo schermo del computer o il suo alter ego collocato in altri angoli della baracca), impegnandosi in monologhi personali ma anche filosofico-religiosi, esercizi attoriali, dialoghi con i suoi doppi, spesso persecutori, ma talora anche ironici (l’ombra ride mentre lui piange).
Nel film KKD non ha più la distanza creativa dai suoi personaggi, ma è solo se stesso, nelle sue parti sane e malate, nelle sua abilità visivo-registiche-pittoriche, ma anche meccaniche (come alcuni suoi personaggi dei suoi film di fiction è abilissimo nel costruirsi macchinette di vario genere e perfino un revolver), nelle sue ossessioni bulimiche (con tanto di riciclaggio artistico delle carcasse dei pesci mangiati), nelle sue necessità fisiche, in primis riscaldarsi, visto il freddo che lo circonda, e che contagia lo spettatore. KKD si compiace del suo degrado e inquadra orgogliosamente i geloni sui talloni mentre si allontana sulla neve per fare legna o anche solo per fare i suoi bisogni. Infine piange mentre rivede sullo schermo del pc la lunga sequenza di espiazione di uno dei suoi film più belli, “Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera”, in cui il protagonista, gravato da un macigno simbolico (il karma negativo legato agli istinti aggressivi) porta una statua del Buddha in cima ad un crinale e prega guardando la propria abitazione-tempio nel lago. Piange con ogni probabilità per l’impossibilità di sublimare artisticamente una situazione analoga a quella rappresentata nel film ma lì resa fruibile ad un pubblico grazie al lavoro estetico.
Ecco cos’è la depressione: l’impossibilità di rappresentarsi in modo mediato, l’essere immediatamente sempre e soltanto se stessi, impossibilitati a trascendersi in qualsiasi modo; i tentativi rozzi e arcaici di KKD di creare uno spazio interpersonale con se stesso nei monologhi con la telecamera e i gli interrogatori con i suoi doppi sono proprio gli sforzi immani che KKD fa per combattere il proprio male.
Quando tutto sembra inesorabilmente condurre al suicidio del protagonista, un suicidio in diretta, alla Mishima, o alla “Dillinger è morto” (un capolavoro dimenticato di Marco Ferreri), vediamo KKD salire sul SUV e andare in città ad uccidere 3 persone, fuori campo (i traditori, i fantasmi persecutori?). Segue quindi una sequenza di dipinti di KKD e gli stupendi manifesti dei suoi film: la bellezza riappare e con essa si dilegua ma malattia? Come Dillinger, che con il revolver uccide anzi la moglie che se stesso, anche KKD è salvo.
Resto in attesa di vedere “!Pietà” che quest’anno (2012) ha trionfato a Venezia per vedere se questo male durato tre anni, questo strazio immane di una vita quasi animale in isolamento, è andato a nutrire un nuovo capolavoro.
Arirang
di Kim Ki-Duk. Corea del Sud, 2011. Durata: 100 min.