Ormai da qualche decennio assistiamo a narrazioni filmiche di avvenimenti storici tanto recenti, che sono alla portata della memoria di ciascuno di noi. E ci stupiamo di uscire dal cinema un po’ contrariati, anche se normalmente quelle narrazioni si presentano come documentate e molto disponibili alla comprensione delle motivazioni errate che hanno condotto i protagonisti di allora a certi gesti insensati, che volevano essere gesta e non lo furono.
Perché, dunque, usciamo amareggiati dalla visione di quei film? Non certo perché il regista ha falsificato gli avvenimenti, per cui poi a correggerli si alza di nuovo Adriano Sofri e confeziona un intero volumetto di precisazioni puntuali e puntute, come ha giustamente fatto con l’ultimo film di Giordana, Romanzo di una strage. Non è per questo che usciamo dal cinema un po’ amareggiati.
Si partì con La meglio gioventù e poi, giù giù, con Prima linea (affidato allo stanchissimo Scamarcio), Il sol dell’avvenire (con un’allegra combriccola di ex-terroristi poco o nulla pentiti), senza dimenticare il buonista Buongiorno notte (dell’ormai sopravvissuto a se stesso Marco Bellocchio) e quanti altri, non escludendo né Il divo né I primi della lista e comprendendo anche i più “storici”, ma sempre sulla stessa linea dell’errore, del diabolico errore indotto dai cattivi maestri (Mazzini in testa).
Noi che abbiamo vissuto quel periodo storico, possiamo testimoniare che il mondo, che ci circondava, non era poi così buono come viene mostrato in quei film. Questo è un dato, anzi, direi che è il dato di partenza.
Calabresi non era buono, Moro neppure, Saragat non era un sempliciotto, Andreotti non era un promeneur solitaire roussoiano, perseguitato da mediocri faccendieri. Le famiglie, con il loro ritmo quotidiano fatto di buonsenso non erano la gente tranquilla che lavorava di Celentano. Le città non erano più godibili e sicure di quanto lo siano oggi e la fabbrica era una trincea fordista.
L’industrializzazione forzata e accelerata degli anni sessanta e settanta aveva fatto incattivire la gente che passava da un qualunquismo bonario da anni cinquanta (alla Totò) ad un qualunquismo inasprito e feroce contro la politica: contro chi la faceva da dirigente o da oppositore.
Il rossi o neri sono tutti uguali contro cui si scaglia Moretti in Ecce bombo, gridando: -Ma che siamo in un film di Alberto Sordi!?, era un ritornello che noi sentivamo tutti i giorni come espressione di una cattiva coscienza diffusa, che tentava di sporcare ogni gesto ideale tentato da parte delle nuove generazioni. Cercava di appiattire il tutto in un tutto uguale, cercava di confondere le coscienze, e questo mentre gli americani nel Vietnam si facevano fotografare tenendo per un ciuffo di capelli la testa decapitata di un guerrigliero Vietcong a cui avevano messo fra le labbra un sigaretta accesa.
Questo era il mondo, non inganniamoci.
Eppure così non può essere rappresentato. Perché? Perché altrimenti diventerebbe protagonista e le ragioni della narrazione lo vietano. In effetti per potere narrare una vicenda all’interno di un immenso magma di avvenimenti, bisogna che questi si allontanino sullo sfondo e si plachino. E’ questo il destino della narrazione. Un destino teatrale per eccellenza: che si tratti di Fabrizio alla battaglia di Waterloo o di Pierre nella Mosca che brucia o di Renzo fra i rivoltosi o gli appestati di Milano, che si tratti della piccola vicenda individuale di Livia e Franz all’interno della più grande vicenda storica della terza guerra d’indipendenza, il particolare deve prevalere, disegnandosi su uno sfondo inerte.
Ecco che la realtà storica degli anni di piombo si appiattisce a normalità quotidiana e non bastano a renderla inquietante le rare osservazioni di Moro-Gifuni, profeta disarmato e inascoltato, si tratta di una realtà che pretende allo statuto di normalità proprio per poter narrare quelle vicende in primo piano, vicende che sembrano così scaturire dalle diaboliche fantasticherie di qualche cattivo maestro e non da logiche concatenazioni storiche, cioè dal vecchio sfruttamento capitalistico.
Ma i grandi narratori ovviamente riescono a rovesciare la logica della narrazione e narrando di piccoli casi descrivono i grandi momenti storici, per cui le peripezie di Renzo e Lucia rivelano il volto del Secolo in cui vivono.
Non è questo purtroppo il tenore dei film di cui sopra, le cui vicende particolari restano tali e non scoprono universi più vasti e più incombenti.
Quindi si rivela ancora una volta vera l’affermazione per cui narrare di fatti gravi (come le guerre o gli attentati, le pestilenze o le carestie) presuppone un talento straordinario in quanto la materia del narrare è di grande momento, ma possiede anche una sorta di severità nei confronti di chi voglia trattarla.