“Sono una persona fortunata: ho fatto un mestiere che mi piaceva, che mi ha portato ad incontrare persone interessanti e a girare il mondo; alla fine della vita… insomma… alla fine… diciamo verso la fine della vita sono diventato anche cittadino di Firenze, che è il simbolo della grazia, dell’arte, della conoscenza… Però non dobbiamo soltanto farci belli per il nostro passato, bisogna distaccarci un po’ dal Rinascimento. Firenze era all’avanguardia, inventava tutto, a cominciare dagli scioperi, cerchiamo adesso di non restare la retroguardia”.
Le sue prime parole da fiorentino non potevano che essere graffianti, e chi ha voluto intendere ha inteso. Dal 12 maggio di quest’anno il capoluogo toscano ha un cittadino in più, si chiama Mario Monicelli, che ha ricevuto il riconoscimento di cittadino onorario dalle mani del sindaco, al termine di una cerimonia nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, alla quale sono intervenuti il musicologo Luciano Alberti, il giornalista e critico cinematografico Claudio Carabba, il docente Pierfrancesco Listri e il giornalista e critico teatrale Francesco Tei, coordinati dal giornalista Fabrizio Borghini, oltre al presidente del consiglio comunale Eros Cruccolini, che ha raccolto l’adesione e l’appoggio del regista al futuro progetto di introduzione e diffusione in città della buonissima ma raramente praticata abitudine di offrire nelle sale la proiezione di film con sottotitoli per i non udenti.
Durante la giornata Monicelli è stato festeggiato anche alla Casa del Popolo di San Quirico (dove tra l’altro è attivo uno dei cineclub della città) con la proiezione di Temporale Rosy (tra le sue pellicole meno conosciute), seguita dall’incontro con un gruppo di studenti, e con l’inaugurazione di tre mostre dedicate al suo cinema e alla sua attività di fumettista, per finire con la consegna del Premio Nerbini.
Affetto, stima, apprezzamento del pubblico nei confronti del regista non sono mai mancati e non scemano neppure negli ultimi anni: lo dimostra il lungo ed emozionato applauso dei presenti al suo arrivo nel Salone e quello anche “urlato” ed altrettanto commosso che ha seguito le sue parole di ringraziamento.
Sulla toscanità di Monicelli non abbiamo mai avuto dubbi, e non stiamo parlando solo di anagrafe. Pochi altri hanno incarnato come lui, nell’arte e nella vita, quello spirito profondo intriso d’ironia, crudeltà, irriverenza, unite sempre però all’onestà, la schiettezza, la sagacia, che ha contraddistinto fin dall’antichità un certo tipo di toscano, spirito che oggi sembra ormai sull’inesorabile via dell’estinzione. Lo sottolinea Listri, che fa notare come le opere di Monicelli – sulle orme di Boccaccio – siano dotate di un forte senso della beffa e come riescano sempre a far perno su uno snodo essenziale dell’esistenza e del pensiero umano, la morte. Monicelli è affascinato dalla morte, come testimonia anche Alberti, che gli commissionò quattro regie d’opera, tra le quali Gianni Schicchi di Giacomo Puccini. Nessun intreccio poteva essere più calzante: un uomo si finge morto per turlupinare i legittimi eredi. D’altronde il regista ha sempre affermato – ricorda Alberti – che i funerali sono la cosa più esilarante e che la famiglia è una grande scuola di ipocrisia, dove tutti fingono un rituale.
La sua è toscanità e non toscanismo – afferma Carabba – non il facile bozzettismo regionale nel quale sono caduti anche nomi importanti del cinema italiano, come i Taviani o Bernardo Bertolucci. Un carattere autentico ed inquieto che lo porta a lottare affinché Amici miei – inizialmente pensato da Germi per Bologna – venga ambientato in Toscana.
Certo quel film e il suo seguito non possono essere considerati tra i migliori risultati dell’arte della commedia monicelliana dal punto di vista strettamente cinematografico, e se oggi Firenze tributa omaggio al regista, più che per l’ambientazione geografica e linguistica dei due film, è secondo noi in virtù di un’essenza di toscanità che ha saputo trasfondere in tutte le storie e i personaggi che ha messo in scena.
E a proposito di scene, Tei ci rammenta che Monicelli è stato anche regista di prosa, seppur per fugaci incursioni e che proprio per questo forse al teatro italiano è mancato qualcosa. Lui non si smentisce e replica così: “Non ho mai fatto volentieri l’opera lirica e la prosa. Le mie regie teatrali sono state dei fallimenti, quanto alla lirica, non ho mai capito cosa debba fare il regista: il libretto è già scritto da altri, i tempi li detta la musica… Il mio vero mestiere è sempre stato il cinema. Ho cominciato a cinque anni a vedere film, eravamo cinque fratelli, mia madre ci accompagnava al cinematografo e tornava a prenderci la sera. Nella sala buia piena di fumo la gente partecipava, inveiva, piangeva, rideva, applaudiva… Non ho mai sentito film più sonori dei film muti. Già allora, guardando lo schermo, mi dicevo: voglio entrare in quella cosa misteriosa”. Poi ci è riuscito, per fortuna sua e nostra.