“Intervista a Carlo Cosolo, direttore di doppiaggio” di Susanna Pellis

Mentre stavo guardando, e ascoltando, l’ultimo film dei fratelli Coen (Intolerable Cruelty Prima ti sposo poi ti rovino) in versione italiana, ho pensato che il dialoghista avesse fatto un lavoro veramente fenomenale. Tempo dopo, una coincidenza del tutto fortuita mi ha portato a conoscerlo. Si chiama Carlo Cosolo, è romano, e per il cinema fa tre mestieri assieme: traduce i dialoghi, ne fa l’adattamento, dirige il doppiaggio. Sono sicura che anche chi preferisce i film in lingua originale troverà molto interessante quello che mi ha raccontato.

Come sei arrivato a questo lavoro?
La mia formazione è quella dell’attore di teatro, ho iniziato a recitare a 16 anni (ora ne ho 48), dopo il liceo ho fatto l’Accademia d’Arte Drammatica. Ē stato nel 1981, in un periodo in cui si stavano affermando le tv private e c’era molto lavoro, che mi è capitato di cominciare a fare doppiaggio, con Franco Latini. La principale difficoltà tecnica quando si doppia è andare a ‘sinc’ [sincrono], cosa che a me invece risultava facile, istintiva. Ero un po’ stanco del teatro, fare il doppiatore non mi dispiaceva, anche perché potevo lavorare senza muovermi da Roma. Tutto il resto è nato in seguito, molto casualmente: stavamo doppiando una serie TV, A-Team, e dal momento che proponevo continuamente modifiche ai dialoghi, mi sono sentito dire “Se sei così bravo, provace te!”. Così – un po’ per scherzo, un po’ per sfida – ho cominciato a tradurli davvero. Oggi lavoro con la Cast Doppiaggio, società di cui sono anche socio.

Quali sono i vari passaggi da un film originale a un film doppiato?
Si parte naturalmente dal video del film e dal copione, per iniziare a tradurre. Io faccio traduzione e adattamento contemporaneamente [Carlo lavora infatti davanti a due schermi: sul primo scorre il film in originale, mentre sul secondo compaiono i dialoghi, anch’essi originali, che traduce e adatta subito in italiano, N.d.R.] perché preferisco basarmi anche sull’ascolto piuttosto che solo sullo scritto, dato che molto spesso è l’intonazione a far comprendere una battuta nel modo giusto. Terminati traduzione e adattamento, si va in sala doppiaggio; in seguito c’è la sincronizzazione, che corregge i piccoli possibili scarti con interventi minimi di spostamento delle battute, in modo che queste corrispondano perfettamente ai movimenti facciali degli attori. La fase finale è il mix delle voci con la colonna cosiddetta internazionale, che contiene i rumori e gli effetti, oltre naturalmente alle musiche. Dopo tutti questi passaggi, che richiedono in media un mese, il film può essere stampato e andare in sala.

Nell’adattamento si tiene conto soltanto dei movimenti labiali?
Non solo, è altrettanto importante prendere il ritmo delle battute originali in modo che queste aderiscano, oltre che alla bocca, alla faccia e all’espressione. Il sinc è legato non solo al movimento, ma anche alla recitazione; quindi se l’attore-doppiatore non le dà lo stesso colore, intensità e volume dell’originale, la battuta – come si dice in gergo – ‘scolla’ dalla faccia, e sembra che sia un altro a parlare.

Essendo anche direttore del doppiaggio, sei tu a scegliere le voci. In che altro consistono i tuoi compiti in questa fase?
Assegnare le voci è compito del direttore di doppiaggio anche se oggi, sempre più spesso, la decisione è presa insieme al distributore del film. Il direttore del doppiaggio può essere paragonato – con un accostamento che non amo ma che rende l’idea – al regista; solo che, a differenza di questo, guida gli attori verso qualcosa creato da altri, che esiste già (il film originale). Una sfida diversa, quindi, ma ugualmente stimolante.

Quale genere di attori dirigi meglio al doppiaggio?
Come tipologia posso dire che preferisco lavorare con attori veri, che non si limitino a fare i doppiatori. Recentemente ho diretto il doppiaggio di Terra di confine, l’ultimo film di Kevin Costner. Costner era doppiato da Luca Ward, mentre la voce di Robert Duvall era di Omero Antonutti. Ecco, io rimango incantato da uno come Antonutti, un attore che se dici una cosa non solo la fa, o ti fa vedere che la sta facendo, o che la sta cercando, ma che in certi momenti ti mostra proprio una specie di ‘illuminazione’, e tu ti rendi conto di aver detto qualcosa di giusto. Non è solo per il risultato, è proprio un’esperienza forte da punto di vista emotivo. Totalmente diverso è invece Giancarlo Giannini, con cui ho lavorato per Insomnia (Chris Nolan, 2002): decisamente non è facile avere a che fare con lui, almeno per quella che è stata la mia esperienza. Giannini è uno dei più grandi attori viventi, doppia Al Pacino ed è Al Pacino, cioè è dello stesso livello: con lui ti devi guadagnare credibilità e fiducia. Ho faticato un po’ per meritarmi la sua stima, ma devo dire che alla fine il rapporto era ottimo.

Quale è il tuo parere – dal di dentro – sull’opportunità o meno di doppiare i film?
Naturalmente sono favorevole al doppiaggio, ma se dovessi decidere io una politica culturale in Italia la prima condizione a questo proposito sarebbe di far uscire tutte e due le versioni, originale e doppiata, perché secondo me si tratta di due film assolutamente diversi fra loro; la seconda è un serio il controllo di qualità da parte non del committente, ma proprio del Ministero dei Beni Culturali. La lingua che parliamo in Italia è molto legata a quella che si ascolta al cinema e in televisione e questo è uno dei motivi per cui non progredisce. Nella traduzione dei dialoghi ci è praticamente vietato fare delle scelte linguistiche magari insolite, ma che sarebbero più vicine al senso dell’originale. Se potessimo riprodurre davvero fedelmente certi film, sono convinto che verrebbero fuori delle cose pasoliniane, delle vere opere d’arte.

Quindi il doppiaggio è anche una semplificazione, un conformarsi alle abitudini linguistiche del pubblico?
Si, un po’ tutte e due le cose. Una semplificazione sicuramente.

Ē più importante la sensibilità linguistica della lingua madre o la conoscenza (e l’aggiornamento) della lingua che si traduce?
Sono tutti aspetti fondamentali, che interagiscono. Ma a mio parere altrettanto importanti sono la ricerca, la curiosità, l’approfondimento.

Quale è il film che hai tradotto in italiano con più piacere, e quello per il quale hai incontrato le maggiori difficoltà?

Quello cui sono più legato è sicuramente Billy Elliot (Stephen Daldry, 2000), il solo film che ho voluto a tutti i costi, e che non ha mai smesso di commuovermi. Quello più complicato da tradurre finora è stato 8 Mile (Curtis Hanson, 2002), per via del linguaggio dei rapper e dello slang di Detroit. Mi è costato vera fatica e diverse scelte mi sono state anche molto contestate.

E dove collochi, nella scala delle difficoltà, i dialoghi del film dei Coen?
Beh, effettivamente ai primissimi posti. In particolare per alcune scene, in cui all’espressione linguistica corrispondeva anche un’immagine precisa che non poteva essere modificata, si è trattato di una vera e propria riscrittura.

da La linea dell’occhio n. 48


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