Nel dubbio (ma non è un dubbio) che per il cinema italiano non torneranno più i fasti di un tempo, diamo per certo che gli anni sessanta per la nostra cinematografia furono un momento felicissimo. Uno stato di grazia non solo per merito della commedia italiana dei Monicelli, dei Germi, dei Risi, ma pure per quei film “autoriali” che, come avvenne in Francia per la Nouvelle Vague, andarono a connotarsi con la figura e la soggettività del regista.
Sono di quel periodo l’affermazione, tanto in Italia che all’estero, di Pasolini, Olmi, Fellini, Antonioni, Bertolucci e Bellocchio, mentre nel caso di Visconti con l’uscita de suo “Gattopardo” (1963) ci fu una vera consacrazione.
Attraverso la lettura di sei film realizzati dai regista sopramenzionati, il critico Emiliano Morreale con il saggio “Cinema d’autore degli anni sessanta” (Editrice Il Castoro) è andato a rileggere quell’età dell’oro alle luce anche delle forti mutazioni che ci furono nella società italiana e nei gusti del massiccio pubblico delle sale.
Per dare un’idea di quel “mutamento epocale” Morreale rileva il ruolo avuto dal cinema d’impegno nel definire la modernità di uno stile e l’identità collettiva tra i suoi spettatori. Rispetto alla Nouvelle Vague dei Godard, dei Truffaut, dei Chabrol, al Novo brasiliano, al Free cinema inglese e alla Nova Vlna cecoslovacca, il cinema autoriale di casa nostra si presentò senza uno specifico marchio e ciò perché dietro a Fellini, Pasolini, Bertolucci e gli altri non si costruì nessun discorso critico-teorico e poi le loro opere, in diversi casi, vennero considerate come un’ estensione della prestigiosa ondata neorealista.
Morreale puntualizza inoltre le svolte linguistiche che segnarono una via italiana alla moderna cinematografica e la brevità della stagione del cinema d’autore, la quale già alla metà del decennio interessato cominciò a cedere il passo ad una commedia dal format più leggero e ad un cinema tendenzialmente politicizzato nato sulla spinta delle proteste di piazza.
“Il cinema d’autore – scrive Morreale – non conoscerà mai più incassi ed un interesse del pubblico paragonabili ai primi anni sessanta e, d’altro canto, sarà sempre meno interessato a un dialogo diretto con società”.
Ma quali sono i film che vengono analizzati nel saggio dal critico siciliano e che lasceranno affermare il regista in un “mito”, in un personaggio conosciuto ed apprezzato alla stregua di un attore o di un’ attrice? La dolce vita”(1960) di Federico Fellini che svela uno spaccato della società e del costume del tempo, seguendo a sprazzi un canone caricaturale e sprezzante; L’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni, un film girato come se la sua storia fosse risucchiata in un sogno e i personaggi si muovessero senza cause apparenti e fuori da ogni psicologia; il già citato Il Gattopardo (1963) di Visconti riconosciuto da un critico di ideologia comunista nel “più bel film conservatore degli ultimi vent’anni”; Accattone (1961) che segna l’esordio dietro la camera da presa di Pasolini e segue passo-passo il giovane protagonista (un sorprendente Franco Citti per bravura e verità esistenziale) nella sua precaria condizione fino a schiantarsi con la morte liberatrice; I fidanzati (1963) di Ermanno Olmi, un lavoro stilisticamente molto vicino alla Nouvelle Vague per la peculiarità con cui vengono affrontati gli intrecci spazio-temporali. Infine, Prima della rivoluzione (1964) e I pugni in tasca (1965), rispettivamente di Bernardo Bertolucci e Marco Bellocchio, sono le due pellicole in cui, più delle altre, si riconosce l’individualità (e creatività) dell’autore, l’inclinazione alla drammaturgia, l’orientamento ad uno sguardo morale, il paesaggio di un’Italia poco prima che diventasse – come riporta Morreale – “un Paese mancato”.
EMILIANO MORREALE. “CINEMA D’AUTORE DEGLI ANNI SESSANTA”. EDITRICE IL CASTORO. PAG 169 EURO 15,50.