La fotografia di scena mi ha sempre molto attratto e incuriosito, non soltanto perché ho una grande passione per le immagini: forse anche perché scrivere una recensione e fotografare un set mi sembrano due tentativi differiti, ma non dissimili, di cogliere e trattenere l’emozione di un film. Per farmi descrivere meglio il fascino di questo mestiere, ho incontrato un fotografo romano che lavora anche sui set cinematografici, Emanuele Prandi. In una chiacchierata di quasi due ore – che qui riporto necessariamente sintetizzata – ho avuto il piacere di ascoltare il punto di vista di un uomo appassionato e curioso, capace di un’ironia e di un’attenzione ugualmente profonde. Anche se su di un set cinematografico tutto è teoricamente preparato e ripetibile, l’immagine giusta – mi ha raccontato – è un baleno, è la folgorazione di un istante. La si ferma fra due dita, o è perduta per sempre.
Per arrivare a fare fotografie sui set, hai cominciato dal cinema o dalla fotografia?
Dal cinema: essendo molto amico di Roberto Perpignani, che fa il montatore, sono partito dalla moviola e ho avuto la grande fortuna di lavorare subito con Storaro e con Bertolucci; in seguito ho fatto qualche piccola esperienza come operatore e come direttore della fotografia. Quando mi sono sposato mi sono trasferito a Torino e lì ho cominciato a fare il fotografo. Era il 1973, avevo venticinque anni. Da allora mi sono dedicato esclusivamente alla fotografia: cataloghi, libri d’arte, architettura, pubblicità. Sono stato per quattro anni assistente di Franco Fontana, ho frequentato festival e workshop in tutta Europa, ho avuto l’opportunità di incontrare dei grandi fotografi e partecipato a diverse mostre. Nel 1990 ho aperto uno studio a Roma dedicandomi soprattutto ai ritratti. Alla fotografia di scena sono approdato nel 1992 quando un mio amico regista, Vincenzo Verdecchi, mi ha chiamato per fare foto su un suo set; da allora ho lavorato come fotografo in una trentina di film. Sono stato, tra l’altro, segretario dell’Associazione Fotografi di Scena fino allo scorso anno.
Con quale criterio si fotografa un film?
Dipende dall’uso che si farà delle varie foto. Mario Tursi, che è un grande fotografo di cinema, dice che devi sempre sapere che scena si gira e quindi che tipo di foto possono andare bene per quella scena, che tipo di foto possono piacere ed essere adatte a un certo tipo di giornale. Devi insomma essere una specie di agenzia di te stesso e produrre una serie di immagini che abbiano una certa utilità.
Per farlo presumo sia importante conoscere bene il film ed essere sul set per tutta la durata delle riprese.
Io tento ancora di starci tutti i giorni, anche se non sono pochi, nell’ambiente, quelli che se ne meravigliano. Certo non faccio lo stesso per le fiction tv, sui set televisivi ormai si va solo due giorni a settimana. Anche conoscere bene il film è senza dubbio essenziale, ma per un fotografo non è facile nemmeno riuscire a ottenere una copia della sceneggiatura…
Quante foto scatti per un film?
Di media 5 rulli al giorno, che significa all’incirca 3000 foto alla fine. Solitamente, su ogni 36 scatti, le foto buone sono quattro; ma non tanto o non sempre da un punto di vista strettamente fotografico, quanto per esigenze di promozione, insomma secondo criteri che spesso vengono stabiliti dagli uffici stampa.
Si scatta durante le riprese?
Sì, si scatta anche durante le riprese, magari usando il blimp (una particolare custodia che ‘insonorizza’ la macchina fotografica, N.d.R.) per non disturbare la presa diretta, oppure subito dopo, chiedendo agli interpreti di rifare la scena. Invece non è il caso, secondo me, di scattare durante le prove: non solo perché spesso la luce non è quella definitiva, gli attori non ci sono o non hanno i costumi giusti e cose del genere, ma soprattutto perché la tensione non è mai quella vera.
Quando si fotografa si tiene conto del punto di vista della macchina da presa?
In passato i registi non avevano il combo, il monitor che oggi consente di controllare subito tutto il girato. Prima questo tipo di controllo era affidato alle foto di scena, al punto che si fotografava “in asse macchina”, cioè inquadrando esattamente dallo stesso punto della macchina da presa. Le foto registravano tutte le informazioni riguardo a scenografia, costumi, ambiente, ecc., e costituivano una documentazione essenziale al work in progress. Questa abitudine ora si è completamente persa, adesso non si vedono quasi più neanche le foto affisse fuori dai cinema. C’è un altro tipo di riferimento al film, e questo costituisce una nuova chiave per il nostro lavoro, oggi possiamo fotografare muovendoci a nostro piacimento sul set, scegliendo più liberamente l’inquadratura. Ē proprio questo aspetto che può generare attriti con i direttori della fotografia, ad alcuni non va bene che usiamo la loro luce per una nostra interpretazione.
Quindi la presenza del fotografo può creare problemi sul set?
Si, e quello che a me piace di questo lavoro è proprio il fatto che in quelle poche settimane devi gestirti tutta una serie di equilibri, dall’attore nevrotico al regista che non ti vuole vedere in giro…. Allora devi trovare delle vere e proprie strategie, sia nei rapporti interpersonali che nel modo di fotografare, per fare in modo che la tua presenza si sovrapponga al resto. Le foto in questi casi possono anche venire meglio, perché il fotografo è svincolato dalla macchina da presa e dai suoi modi narrativi. Del resto chi fotografa deve trovare un’immagine per forza di cose differente da quella della cinepresa, già per il fatto che deve chiudere in una sola inquadratura quella che magari è un’intera sequenza.
Quali sono le altre differenze sostanziali con le riprese del film?
Il fotogramma è di dimensioni doppie rispetto a quello cinematografico, quindi non si usano le stesse lunghezze focali; l’inquadratura del cinema è solo orizzontale, mentre noi possiamo realizzare anche immagini verticali. Inoltre oggi le scene di un film spesso sono illuminate con pochissima luce: in questi casi noi fotografi abbiamo delle difficoltà tecniche, i nostri obiettivi hanno caratteristiche ottiche differenti da quelli cinematografici, che lavorano al meglio con i diaframmi più aperti; tra l’altro noi usiamo pellicole diverse.
Se le pellicole sono diverse, immagino ci sia una differenza anche nella loro resa.
La Kodak investe in due settori: quello amatoriale e quello cinematografico. Per il settore fotografico investono solo nel grande formato, quindi noi che fotografiamo sui set usiamo pellicole professionali che di fatto non sono pellicole di grande qualità. Anche se poi quello che è davvero importante è il trattamento del negativo, in tutte le fasi intendo, partendo dallo sviluppo, fino ad arrivare poi al fatto di conservarlo nel proprio studio. Il fotografo di scena non ha i negativi, che rimangono ai laboratori o alle produzioni, e che vanno addirittura perduti se le produzioni cessano l’attività. Eppure il negativo è l’espressione immediata di quello che il fotografo ha deciso di fare, contiene le sue scelte, il suo tempo, la sua presenza…. Il fotografo deve difenderlo perché perdendone il controllo lui perde potere, e ne risente la già scarsa considerazione in cui viene tenuta la nostra figura professionale. Se solo avessimo tutti i negativi, noi fotografi di scena potremmo davvero essere la memoria del cinema.
Dicevi che sul set è tutto un gioco di equilibri. Quale è, per la tua esperienza, il rapporto del fotografo di scena con gli attori?
Alcuni funzionano, altri no, dipende sempre dal tipo di rispetto, da come tu fai arrivare loro quello che stai facendo, perché lo fai, e quanto li rendi partecipi. Ma è anche vero che non tutti gli attori sono capaci di rispetto nei nostri confronti. Io per esempio, se chiedo di ripetere una scena, mi rendo conto che non sempre gli interpreti sono in grado di mantenere la stessa concentrazione quando la macchina da presa è spenta. Ci sono quelli che vanno sopra le righe, quelli che assumono pose del tutto innaturali, quelli che mi fanno le ‘faccine’. In questi casi, l’emozione non si recupera più. Con altri attori, al contrario, c’è un grande rispetto vicendevole, e può capitare perfino che nascano delle vere amicizie. A me per esempio è successo con Ivan Franek (protagonista tra le altre cose di Brucio nel vento di Soldini, N.d.R.), con il quale sono rimasto in contatto: sul set è stato molto facile lavorare con lui proprio perché ha una grande capacità di mantenere alta e costante la concentrazione, anche a riprese terminate.
Secondo te può succedere che un attore sia fotogenico al cinema e non in fotografia?
Si, può capitare. Gli attori infatti stanno molto attenti. Hanno un’esigenza precisa d’immagine, che naturalmente va rispettata, anche se la fotografia non deve creare le stesse aspettative della chirurgia estetica… Io però m’intrufolo, mi piace anche scoprire altri aspetti. Ē bellissimo seguire un volto e rimanere in attesa. È chiaro che ci vuole tempo, ma questo tipo di ricerca il cinema la permette, perché la fotografia di scena è un po’ una specie di mediazione, un punto d’incontro fra il ritratto e il reportage.
Quello del fotografo di scena è sempre stato un mestiere di cui pochi conoscono l’esistenza. Quale è la situazione attuale?
La mancanza di riconoscimento del nostro ruolo è indubbia. Basti dire che le nostre foto non sono mai accompagnate dal nome dell’autore, e che nei crediti dei film il fotografo di scena non è mai citato. Del resto c’è scarsa consapevolezza anche fra di noi, si pensa più a fare rivendicazioni che non proposte. Sui set ci trattano male, ci considerano d’intralcio, non sanno che cosa ci stiamo a fare. Ma forse sta soprattutto a noi farglielo capire, per esempio attraverso il modo in cui presentiamo il nostro lavoro: se fotografi un regista, non scattare quando è con l’occhio in loupe, è una foto che gli hanno già fatto duemila volte. Seguilo quando deve dare lo stop, quando deve decidere che la scena è finita. Sono quelli i momenti forti, e lui li conosce benissimo: mostragli quel tipo di immagine, e magari capirà meglio cosa sta a fare un fotografo sul suo set.
da La linea dell’occhio n. 50