“Il cinema astratto di Luigi Veronesi”

di Mimmo Mastrangelo

luigiLa cosa importante…è sempre quella di organizzare una realtà visiva, uno spazio plastico e dinamico insieme, fuori dai canoni della rappresentazione naturalistica…”. E’ quanto affermava Luigi Veronesi (1908-1998) uno dei padri dell’astrattismo italiano, artista di spessore mondiale che si dedicò senza superficialità alla trascrizione pittorica della musica.

Di Veronesi è in corso fino al prossimo 8 gennaio una bellissima retrospettiva alla Fondazione Ragghianti di Lucca ( a cura di Paolo Bolpagni, Andreina Di Bruno e Chiara Savettieri) in cui si può riscoprire un dinamismo pittorico, cinematografico e grafico corredato dal fantasmagorico gioco a-narrativo dei colori e della forma.

Al cinema l’artista milanese si avvicinò con la curiosità di chi vuol conoscere una tecnica e indagarne le potenzialità espressive. Il suo primo film (andato bruciato) è un tour quotidiano lungo le strade della sua città che, nonostante il canovaccio documentaristico, già lascia intravedere il seme di uno sguardo che successivamente sarà pensato come pittura in movimento, libera dall’idioma narrativo e dove la macchina da presa fa da metafora di luce sulla superficie del fotogramma.

La materia e l’essenza del cinema astratto di Veronesi viene svelata dalle sue stesse parole, “La mia pittura – diceva – continua sulla pellicola acquistando un’altra dimensione, quella del tempo e del movimento”.

Filmò numerose opere, ma diverse (come la prima) andarono perdute a causa dei bombardamenti del 1943, ed oggi di Veronesi sono rimasti solo sette film restaurati dieci anni fa dalla Cineteca di Milano e in proiezione alla Fondazione Ragghianti.

Film n 2- i caratteri” (1939) è ambientato in una falegnameria dove vengono fabbricate delle lettere tipografiche, la macchina da presa porta il suo obbiettivo sulle lettere e dal suo movimento vengono fuori delle visive composizioni astratte ispirate alle opere di Moholy-Nagy e Rodcenko.

In “Film 4” (1940) ritroviamo l’idea della progressione aritmetica della scala dei numeri di Fibonacci nonché delle scansioni di montaggio ispirate a ritmi di Stravinsky, mentre “Film 6” (1941), che è forse l’opera più bella, si apre con delle spirali in movimento che ricordano quel capolavoro del cinema surrealista che è “L’anemic cinema” (1926) di Marcel Duchamp. “Film 9” del 1947 è una sovrapposizione di sequenze astratte allegate da ritratti solarizzati che incolonnano diversificate e colorate espressioni dei volti, invece “Allegretto” (1950) rimanda alle note di Oskar Fischinger e ai più conosciuti veronesiani movimenti del colore.

Gli ultimi due film di Veronesi sono “Film 13”, realizzato oltre trent’anni dopo “Allegretto” su una pellicola avente una base fotografica non realizzata con la camera oscura ma con la tecnica del fotogramma, ed, infine, “Un giorno alla Olivetti, documentario muto di venti minuti girato nel 1946 e visto per la prima volta al pubblico al Festival di Venezia nel 2001. Ritrae gli esterni i luoghi interni di lavoro di quella “mitica università” della valorizzazione del lavoro materiale ed intellettuale voluta da Adriano Olivetti, ma il film di Veronesi si risolve in un gioco di inquadrature che esalta tanto il linguaggio delle macchine quanto quel “sentimento” sociale ed umano che regnava un tempo nello stabilimento di Ivrea.

Fondazione Ragghianti di Lucca. Retrospettiva di Luigi Veronesi, a cura di Paolo Bolpagni, Andreina Di Bruno e Chiara Savettieri.


Lascia un commento