di Gianni Quilici
E’ forse banale sottolinearlo. Ma, avendo tra le mani “Lulu a Hollywood”, il primo motivo di fascino sono le foto: numerose e magnifiche. Intanto perché hanno la patina della memoria, di epoche però sempre vive; poi perché Louise Brooks non ha soltanto il fascino di una bellezza espressiva, ma una forza visuale enigmatica che la rende simbolo di un’epoca: la jazz age degli Scott Fitzgerald e la Berlino dell’espressionismo. Lotte Esner la considererà, non a caso, la prima attrice “moderna” della storia del cinema.
Ed in effetti leggendo la sua autobiografia, forse capiamo un po’ perché.
Intanto perché la sua scrittura è chiara e ordinata, vuole raccontare, comunicare, non esibirsi. Ed infatti ci racconta della sua famiglia e soprattutto della mamma.
“Quando prese marito, disse a mio padre che lui rappresentava la sua fuga verso la libertà e le arti, e che se mai avesse dato alla luce dei marmocchi urlanti, avrebbero dovuto arrangiarsi da soli. E così fece”.
Dalla sua famiglia assorbe infatti “una radicata abitudine alla verità”, ne viene favorita la sua precoce autonomia e la sua incapacità di sottomettersi alla schiavitù hollywoodiana. Il desiderio d’autonomia e di libertà sarà, infatti, il filo che collegherà gli atti della sua vita d’attrice.
In Lulu a Hollywood Louise Brooks ci racconta soprattutto le storie di lei come attrice, mentre sono assenti (o quasi) gli aspetti più intimi: erotici o sentimentali.
Lì è il vero centro di interesse dell’autobiografia. “La tragedia della storia del cinema” scrive, infatti, la Brooks “è che è fabbricata e falsificata dalle stesse persone che lo fanno”. E se ciò era comprensibile prima, quando il cinema non era considerato un’arte, non lo sarà più dopo. E invece, continua la Brooks, “le stelle del cinema continuano a impersonare stereotipi che i loro cronisti riforniscono di aneddoti”.
Non così il libro della Brooks che coglie i divi nelle loro qualità e debolezze, nella loro solitudine o miseria. Emergono i ritratti di Humphrey Bogart, W. C. Fields, Mark Sennett, Lilian Gish, Greta Garbo.
Forse però la figura più affascinante è quella di Pabst.
“Pabst era tarchiato, con le spalle larghe e il torace solido. Quando non si muoveva dava l’impressione di un uomo pesante. Ma quando era in azione, l’agilità delle sue gambe era pari a quella della sua mente. Arrivava sul set sempre fresco e riposato, e per prima cosa si avvicinava alla macchina da presa per controllare l’inquadratura, poi si rivolgeva al suo operatore(…) Non faceva mai discussioni di gruppo con gli attori ma spiegava ad ogni attore separatamente quello che doveva sapere della scena. Pabst si rifiutava di trasporre sullo schermo le tecniche teatrali. Avrebbero soffocato ogni realismo, paralizzando ogni parola, ogni gesto, ogni sentimento. Ricercava invece lo choc liberatore delle emozioni impreviste”.
Il loro rapporto sarà speciale.
Ed è quello tra due creatori: l’artista e la sua modella. L’artista che sa, la modella che è, ma con tutti i conflitti di ruoli in movimento.
da La linea dell’occhio
Louise Brooks. Lulu a Hollywood. Traduzione di Marcello Flores d’Arcais. ubulibri.