“Werner Herzog: poeta visionario” di Erika Ponti

di Erika Ponti

Werner Herzog
“Siamo circondati da immagini consumate,
e ce ne meritiamo di nuove”

C’è una cosa che mi ha sempre affascinato, e che amo ricercare nei libri, nei film, nei pensieri e negli occhi di chi ho di fronte, ed è quella sottile dimensione folle che sottintende una percezione della realtà altra: non sto parlando di alieni né di quarta dimensione e nemmeno sono alla ricerca di una Matrice, bensì di un certo estro creativo che rielabora le informazioni-impalcatura che sostengono il reale attraverso nuovi codici e determinazioni, vedendo il mondo fatto di cose che altri non vedono, denso di significati che per altri non significano nulla. Riuscire ad andare oltre i segni che articolano la realtà, vedere là dove gli occhi dei più non colgono che il cospetto dell’evidenza, accomuna spesso gli artisti agli occhi non viziati dei bambini, ma anche ai folli, e come la più banale e veritiera associazione concettuale ricorda, il processo artistico spesso non può prescindere dalla follia.

L’artista si fa così demiurgo visionario ed allucinato, un genio che mette a disposizione dei più la sua visione, la sua conoscenza ampliata, la sua rivelazione: una visione forse troppo romantica, convenzionale sicuramente, tuttavia il tentativo di mettere in scena l’Universo attraverso coordinate e punti di vista inusuali alla ricerca di un nuovo Assoluto si traduce in fattuale obiettivo per un regista come Werner Herzog.

A questo artista la città di Torino, in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema e la Scuola Holden, ha dedicato una manifestazione, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, svoltasi dal 16 gennaio al 10 febbraio scorso, all’interno della quale oltre alla proiezione delle sue opere è stato organizzato un laboratorio di cinema e di scrittura tenuto dal regista stesso e rivolto a giovani filmaker, sceneggiatori e scrittori selezionati attraverso un bando di concorso nazionale. Il Castoro ha inoltre pubblicato il libro di Grazia Paganelli con un introduzione di Alberto Barbera, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, che delinea il ritratto di un regista poetico e avventuroso, a metà tra un cantastorie e un esploratore.

Esponente del Nuovo Cinema Tedesco, in realtà puro apolide nel senso più geografico e filosofico possibile, Herzog come un funambolo cammina sull’orlo della follia valicando in continuazione nuovi confini e rendendo praticamente impossibile l’individuazione di precise influenze o derivazioni: egli è più una figura isolata del cinema degli anni 70, si distanza dai giovani autori tedeschi di allora come Fassbinder o Kluge per via della sua ricerca costante di un linguaggio mistico e visionario che non lascia spazio a sentimentalismi, e intraprende invece la via più pericolosa dell’acuto osservatore del mondo dall’alto della sua posizione privilegiata. Il mondo Herzog non rinuncia a rappresentarlo imperfetto, o folle, o corrotto ed il suo cinema diviene ben presto pretesto per un’indagine ossessiva di nuove modalità che sottraggano lo sguardo alla bruttezza del realismo quotidiano. La moderna civiltà industriale per il regista è responsabile della creazione di immagini arretrate e didascaliche che non corrispondono al nostro attuale livello di cultura, e ritiene opportuno cercare di andare oltre, costruire una nuova grammatica: per Herzog infatti la verità è qualcosa di diverso da quello che può suggerire un’immagine, seppur “realistica”, e attraverso il suo modo di fare cinema crede nella necessità e nel dovere di ridare valore e senso alle immagini perché contrastino la vacuità delle icone moderne.

La particolarità del cinema di Herzog sta nella forza fenomenologica del suo sguardo sulle cose: il suo è un continuo interrogarsi sull’essere delle cose tanto che ogni suo film ha una convinzione quasi fisica alla base che radica nella concretezza dell’esperienza ogni singola immagine, la quale trae così facendo credibilità e sostanza. Ecco perché per lui finzione e documentario si intrecciano inscindibilmente nel disperato tentativo di sottrarsi al realismo quotidiano: non sono due realtà opposte, bensì compenetranti. Un universo fatto di esperienza, di vissuto e non di reale, dove dunque è la Natura l’elemento incontrastato: ogni sua opera è un’escursione conradiana dentro la natura selvaggia, misteriosa ed implacabile, lontana anni luce da essere fonte di ispirazione romantica bensì substrato primitivo, casuale e caotico, violento. La Natura è cattiva, folle, vendicativa, non c’è alcuno sguardo accomodante in essa, solo puro istinto di sopravvivenza.

Da rimanerne spiazzati, con questa idea, così come spiazzante è la figura di Herzog stesso.
Il suo cinema e la sua biografia, che riflette la visionarietà della sua produzione, sono borderline sia a livello produttivo che a livello artistico: basti pensare alla lunga serie di esperienze al limite che caratterizzano la sua vita (come il viaggio a piedi nel Sahara per le riprese di Fata Morgana, le difficoltà e i pericoli superati dalla sua troupe nella foresta amazzonica sul set di Aguirre o il viaggio a piedi intrapreso in inverno da Monaco a Parigi dove lo aspettava un’amica malata) e alla vastissima produzione di documentari, sguardi particolari alimentati da sogni, malinconie e desideri molto più che dalla realtà. Una realtà, quella moderna, che conosce con ritardo: sin da piccolo si trasferisce con i genitori in un villaggio di montagna, lontano da ogni contatto, senza cinema, senza televisione, senza telefono. Proprio durante la sua recente visita a Torino:” Poche ora fa ho visto alcuni dei filmati che sono presenti qui al Museo del Cinema, tra cui uno dei fratelli Lumiere, una sequenza di un nano e un gigante che lottano insieme e ammiravo il modo in cui agli albori del cinema c’era una capacità di invenzione. Quando io ho cominciato a fare cinema ho avuto lo stesso tipo di approccio : la voglia di inventare il cinema. Proprio perché ho scoperto il cinema più avanti nella mia vita, non ha avuto un ruolo formativo nella mia infanzia e nella mia adolescenza”.

“I miei personaggi sembrano degli outsider,
ma è il resto ad essere outsider”

Il primo cortometraggio a 19 anni, poco dopo fonda la sua casa di produzione, a 25 anni si impone all’attenzione internazionale con il lungometraggio Segni di vita (1968), vincitore dell’Orso d’Argento Speciale al Festival di Berlino. Dopo Fata Morgana (1969) ha inizio una lunghissima relazione di amicizia e professionale con l’attore Klaus Kinski (Aguirre, furore di Dio (1972), Nosferatu – Il principe della notte (1978), Woyzeck (1979) e soprattutto Fitzcarraldo (1981) che gli farà vincere la Palma d’Oro come Miglior Regista al Festival di Cannes), una sorta di alter ego: sognatore lanciato in imprese al limite della follia, personaggio al di fuori degli schemi e dei modelli di vita comunemente accettati, personalità totalizzante che vive di estremi e per questo è perdente, perché fuori, perché destinato allo scacco. Il regista crede in questi attori un po’ sciamani che vivono il loro personaggio dal dentro, che si avvicinano al mondo con occhi puri, ingenui, non ancora sporcati da condizionamenti e irrigiditi in schemi mentali precostituiti. Come Bruno S., psichicamente deviato che ha portato sulla scena la vera sofferenza, inquietudine e diffidenza di Kaspar Hauser (L’enigma di Kaspar Hauser, 1975) in un film memorabile, una storia su noi stessi e contro i nostri pregiudizi culturali; come Timothy Treadwell, sconfitto nonostante sforzi titanici dalla natura e dai limiti che essa inesorabilmente stabilisce, protagonista ingenuo ed eroico di un documentario Grizzly Man (2005); come coloro che per ragioni a loro indipendenti sono costretti a confrontarsi con il mondo in maniera diversa dal comune, con occhi diversi, lottando quotidianamente per una costruzione di senso a cui noi, per consuetudine, ci sottraiamo1, ed è il caso dei sordo-ciechi di Paese del silenzio e dell’oscurità (1971) attorno ai quali Herzog ha costruito una toccante e riflessiva istantanea.

Eroi borderline, reietti della società, trovatelli, nani, sordo ciechi, aborigeni: socialmente diversi, per questo tendenzialmente osservati con affetto e premura, quasi a esplicitare l’equivalenza dei diversi con i “perdenti ma buoni”, sottolineandone così con forte cinismo l’estrema ipocrisia delle definizioni e dei sentimenti borghesi.

Si lancia così alla ricerca della purezza incontaminata, lontana dal perbenismo e dall’egoistica beneficenza del vivere quotidiano: si mette alla ricerca di uno sfondo per far muovere i suoi eroi in una sorta di magma bollente – rovente di nuovi sensi, nuove prospettive – di un palcoscenico dove mettere in scena storie inconsuete, immagini nuove. In Fata Morgana (1971) la Terra sembra essere abitata da occhi estranei, provenienti da altri mondi e proprio per questo in grado di dare nuovi nomi alle cose, inconsueti punti di vista o, forse, capaci semplicemente di vedere ciò che per abitudine non siamo più in grado di vedere: un’idea felice in seguito adattata e approfondita in Apocalisse nel deserto (1991) e ne L’ignoto spazio profondo (2005), dove incontriamo un narratore extraterreste il cui monologo è in grado, sapientemente, di dare forma alle destrutturanti immagini che il regista ci invita a vivere.

“Sono sempre stato interessato alla differenza tra “fatto” e “verità”.
E ho sempre sentito che esiste qualcosa come una verità più profonda.
Esiste nel cinema, e la chiamerei verità estatica“

Perché nella realtà fattuale Herzog non ha mai fatto affidamento. Le sue immagini vogliono intensificare la verità, renderla archetipica, perché in qualche modo vogliono rispondere al desiderio, vecchio quanto l’uomo, di dare una spiegazione all’inesplicabile: del resto l’uomo ha inventato il mito perché così facendo sarebbe stato in grado di trovare l’istanza ultima generatrice di ogni cosa, il perché assoluto, il volere primigenio di creazione.

Herzog è un uomo del passato che vive oggi e che agisce tralasciando ogni dimensione nostalgica: non è un attivista, non è testamentario nel suo voler cercare porte che si aprono a nuove conoscenze, semmai adotta uno sguardo passivo che porta ad un’iperricezione (“credo nella realtà che invade gli occhi”) per via della totale ricettività, intesa come disponibilità di sguardo e di comprensione, cui doverosamente si abbandona per vedere, semplicemente, le cose nelle loro dimensione incorrotta, primitiva, noumenica.

Una natura romantica, inquieta, fortemente debitrice di quel romanticismo tedesco witkiniano che cerca l’Assoluto sotto la percezione sociale, dentro le pieghe delle strutture cristallizzate attraverso cui si guarda comunemente al mondo: lo squilibrio, la distorsione percettiva, la follia, assumono inevitabilmente un ruolo epifanico, uno strumento potentissimo di pura conoscenza.
Così natura e civiltà diventano i due poli opposti che tengono in equilibrio i funambolismi della vita: “I believe the common denominator of universe is not harmony, but chaos, hostility, and murder”2 , se la natura selvaggia è aliena al mondo civilizzato va da sé che è anche ontologicamente pura e diventa dunque etico, doloroso ma doveroso, portarla alla luce, svelarla, di-spiegarla esattamente come i romantici tedeschi, attraverso il paesaggio, humus privilegio di caos e disordine antecedente al raziocinio.
Penso all’Amazzonia di Aguirre furore di Dio (1972) o al Sahara di Fata Morgana, agli innumerevoli abissi o cieli rappresentati nei suoi film, non luoghi eppure territori incontrastati dell’inconscio e del sublime, spazi aperti dove si nasconde la verità. Agli studenti della Scuola Holden: “Per me un autentico paesaggio non è solo la rappresentazione di un deserto o di una foresta. Mostra uno stato interiore della mente, letteralmente paesaggi interiori, ed è l’animo umano ad essere presente nei paesaggi dei miei film”.

“La realtà è misteriosa ed elusiva, e può essere colta solo per mezzo
di invenzione e immaginazione e stilizzazione”

Herzog documentarista lavora per ridare valore alle immagini, cercando di contrastare la vacuità delle icone moderne. Il documentario diventa un’intuizione espressiva che supera il qui del reale alla ricerca costante del senso: costruisce attorno alle immagini, a volte materiali girati da altre persone, delle cornici, delle strutture nuove quasi a suggerire un surplus di valore, una screziatura dissonante che sembra più portarci nei territori della fiction che del documentario. Herzog lavora molto di montaggio, di allegoria, creando cacofonie stridenti tra materiale filmico e senso suggerito, intensificando di emozioni il significato ultimo del visibile.

Per questo non esiste per lui la netta distinzione tra film di fiction e film documentario: troppo inappropriate le definizioni, troppo rigidi i limiti che voglio incasellare la complessità del reale. Sempre a Torino dice “Esiste comunque una forma di distinzione che non si può formulare in modo chiaro : di solito il documentario non viene organizzato, non ha una parte di invenzione, è come se si sviluppasse da solo. Io, invece, amo inventare anche nei documentari, amo cambiare prospettiva con l’aiuto anche della musica e del commento, che normalmente non sono presenti nei documentari. E molti dei miei documentari sono film di finzione mascherati”. L’ambiguità tra realtà e finzione è voluta: citazioni false, immagini casuali, montaggio espressivo nei documentari, eccessivo realismo storico, d esempio, nei film di fiction. Il risultato è pura fantascienza, puro substrato onirico.

I due giorni torinesi, preceduti da interviste, conferenze stampa, incontri con critici cinematografici sono stati particolarmente redditizi, soprattutto per il gruppo di giovani autori e film maker che hanno potuto incontrarlo di persona, senza i filtri della stampa. Sono state ore preziose, ricche di intuizione e di spunti per chi il cinema vuole scriverlo davvero, perché sono state una finestra su Herzog autore, Herzog visionario sceneggiatore dei suoi discorsi sul mondo. Anche se lui, in realtà, ammette di non scrivere nulla.

1) We have to declare holy war against what we see every single day on television”. (“Dobbiamo dichiarare una Guerra Santa contro ciò che vediamo ogni singoolo giorno in televisione”).
2)“Credo che il comune denominatore dell’universo non sia l’armonia, bensì il caos, il conflitto e la morte” (Grizzly Man, 2005)


da La linea dell’occhio 60


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