“Le quattro volte” di Michelangelo Frammartino

di Gianni Quilici

n_01_P_LeQuattroVolteUn vecchio pastore ammalato conduce con fatica le sue capre al pascolo sui monti della Calabria… Una capretta nasce e con fatica muove i suoi primi passi nella vita… Una sacra rappresentazione della Passione di Cristo percorre la via centrale del paese… Un albero della cuccagna viene issato, tagliato…

Grande film questo di Michelangelo Frammartino. Un film che cammina lentamente su un filo tra realtà e suo compiacimento, tra poesia e kitsh. E’ stato fatto (giustamente) il nome di Piavoli, perché riesce a far “vivere” natura e animalità; ma non si può non pensare stilisticamente a Anghelopulos per l’uso prolungato dell’inquadratura fino al rischio dell’estetismo; così come non si può non pensare al Pasolini teorico sul cinema quando scriveva: “La fisicità è poetica in sé, perchè è un’apparizione, piena di mistero, piena di ambiguità, pregna di significati polivalenti (…) Perciò il cinema grazie alla riproduzione diretta e fisica degli oggetti è essenzialmente poetico”. Questa poesia del cinema quasi sempre si perde nei volti, nella parola, nella durata, nell’intreccio e la realtà che può essere sacrale, miracolosa e misteriosa diventa nei film banale, scontata, abitudinaria.

Frammartino riesce, invece a realizzare quel “cinema di poesia” da Pasolini teorizzato e, a volte, realizzato. Riesce, cioè, a dare anima e l’andatura giusta all’immagine e alla storia, pure esile, nel suo procedere. Per ciò che è questa realtà e per come la rappresenta.

Prendiamo la seconda delle quattro parti in cui si dipana il film: quella del capretto. Lo vediamo nel momento in cui nasce e si può immaginare la pazienza e il lavoro del regista e della troupe per cogliere esattamente quell’attimo. Lo vediamo tutto bianco tra capre buffe e smaliziate, che giocano nella stalla. Lo vediamo nel giorno cruciale, quando rimane impigliato nel bosco dentro una fossetta, lo udiamo richiamare inutilmente il gregge, lo vediamo finalmente uscire dalla trappola, lamentarsi, pensare perplesso, scegliere una direzione, per poi, stanco, assopirsi sotto un grande albero. C’è in sintesi la storia di un’anima, l’anima di un capretto con una sua psicologia, all’interno della sua comunità. Fa pensare a un romanzo saggistico come Il libro degli animali di J. M Coetzee o un racconto come Passalungo di Lev Nikolaevic Tolstoi. Non ci sono parole che appiattiscono, ma inquadrature essenziali che scelgono momenti non spettacolari, ma significativi, che danno il senso della durata, del tempo che scorre.

Il tempo acquista nella pellicola una dimensione metaforica di grande spessore. E’ il tempo leopardiano della vita, della morte, della rinascita: muore il vecchio nasce il capretto, muore (forse) il capretto viene alla luce l’albero della cuccagna, muore l’albero della cuccagna per rinascere come carbone, per poi bruciare, risorgere e svanire come filo di fumo nel cielo.

Il tempo inoltre vive nella pellicola. E’ il tempo della durata di un’inquadratura fissa. Frammartino ci dice: “Guarda, non distrarti, non sorvolare su quel volto, su quella strada, su quel panorama”. Lo sguardo ci costringe a “vedere” quelle immagini: siano esse le montagne e i boschi calabri, sia quel paese, quei volti, i loro rituali. Non c’è noia per l’equilibrio tra la composizione delle inquadrature e la narrazione che, filmando il flusso dell’esistenza nella sua freschezza e imprevedibilità, finiscono improvvisamente anche per sorprenderci.

C’è uno sguardo a distanza, spesso in campo lungo e dall’alto, a creare distacco, perché più forte sia la ragione del sentimento, o meglio perché il sentimento sia la conseguenza di uno sguardo vero, non fuggitivo, che ci faccia capire e sentire sia questo universo antico ancora profondamente legato alla natura vegetale e animale; sia il tempo della pellicola, la sua vita e la sua morte, che è anche la concezione del mondo che il regista ci vuole trasmettere.

Le quattro volte

di Michelangelo Frammartino.

soggetto: Michelangelo Frammartino

sceneggiatura: Michelangelo Frammartino

montaggio: Benni Atria Maurizio Grillo

costumi: Gabriella Maiolo

scenografia: Matthew Broussard

fotografia: Andrea Locatelli

suono: Simone Olivero Paolo Benvenuti II

produttore: Gabriella Manfrè (Invisibile Film) Gregorio Paonessa (Vivo Film) Marta Donzelli (Vivo Film) Susanne Marian (Essential Filmproduktion) Philippe Bober (Essential Filmproduktion) Elda Guidinetti Andres Pfaeffli

Documentario

Italia, Germania, Svizzera 2010.

Durata: 88 min.

marcantonio said,

Novembre 26, 2010 @ 15:57

condivido pienamente la tua lettura … è uno dei pochi casi di osservazione documentaristica e finzione associati che mi restituiscono uno star bene e un vero e proprio viaggio nella tradizione. Bravo Frammartino

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