di Ilaria Sabbatini
E’ veramente imbarazzante provare a dire qualcosa sul film di Patricio Guzman. Non riesco proprio a trovare un punto da cui incominciare perché Nostalgia de la luz è ciò che più si avvicina alla mia idea di quello che dovrebbe essere un bel film. Un bel film sulla memoria.
Questo documentario, infatti, è intessuto sulla trama solida di una metafora cosmica, nel senso letterale della parola, come una tela preziosa, forte e sottile al tempo stesso. Una parabola perfettamente completa dove l’universale del cosmo si unisce alla concezione della Storia e alle tante storie personali per far emergere da quel crogiolo una sfera trasparente ed esatta che funziona come una lente di ingrandimento. Cercherò di andare con ordine, anche se la sovversione del concetto stesso di tempo è uno dei punti forti del film.
Di cosa parla Nostalgia de la luz? Della memoria, molto semplicemente. E la memoria è quella dei superstiti alle persecuzioni di Pinochet e dei loro morti, perseguitati anche dopo la morte. Ma il tema della memoria non è svolto in chiave puramente narrativa e, anzi, diventa metafora che getta un ponte tra il microcosmo umano e il macrocosmo dell’universo. Perché l’assunto intorno a cui tutto ruota è quello del calcio, sì, proprio l’elemento della tavola periodica che è presente tanto nelle ossa umane quanto nelle stelle. Guzman inizia il suo racconto con la storia dell’osservatorio astronomico nel deserto di Atacama che diventa teatro del suo racconto a tre livelli. Intervistando gli astronomi Guzman fa emergere che ciò che loro osservano, ossia la luce delle stelle e dei pianeti, è un segnale costantemente ritardato tanto che il presente è solo un’astrazione, un filo sottile che il minimo alito di vento può spazzare via. Questo tipo di prospettiva fa si che il lavoro degli astronomi sia inaspettatamente simile a quello degli archeologi che vanno in cerca delle tracce del passato scavando la terra. Dunque il cosmo e la storia sono simili dal momento che tutti e due richiedono un’osservazione del passato.
L’introduzione del discorso sull’archeologia fa virare la narrazione sulla storia del deserto di Atacama il quale, seppure privo di animali e vegetazione, restituisce costantemente tracce del passato nei graffiti dei pastori precolombiani dal momento che i fiumi di pietra che attraversano quella distesa altro non sono se non le piste carovaniere che garantivano il collegamento con il mare. Così, passando dall’approccio astronomico a quello archeologico, vengono mostrate le tracce che la storia degli uomini ha lasciato in quel deserto dove nell’ottocento avevano lavorato i minatori nell’estrazione dei nitrati. Un passaggio su ciò che resta del cimitero di quegli operai permette di spostare lo sguardo sull’ottocentesco campo minerario che sotto la dittatura era stato trasformato in un campo di concentramento per i dissidenti. I minatori lavoravano in una condizione di schiavitù, dice Guzman fuori campo, così non restava altro da fare ai militari che circondare quell’insediamento con il filo spinato per aver pronto il reclusorio destinato agli oppositori politici. Ma in quel campo si sviluppavano forme di resistenza del tutto singolari e legate alle stelle e alla memoria. Uno dei detenuti, che aveva frequentato l’osservatorio astronomico prima della dittatura, racconta che aveva costruito un rudimentale strumento per l’osservazione delle stelle grazie a cui riusciva a mantenere intatto dentro di sé il proprio senso di libertà. Un architetto disegnava e poi distruggeva la pianta del luogo in modo che, esercitando la proprio memoria, dopo la fine della dittatura riuscirà a ricostruire tutti i dettagli del campo che i militari avevano cercato di far sparire. E la memoria inizia così a prendere forma sempre più chiaramente come oggetto della riflessione del film. Così si passa dalla memoria delle stelle alla memoria delle vittime nell’esperienza dei superstiti e dei familiari, ma soprattutto delle donne che, senza arrendersi, vanno giorno dopo giorno a cercare i resti dei propri cari in quello sconfinata estensione che è l’Atacama. Sconfinata, appunto, come il cosmo dove ogni tanto spuntano frammenti di ossa come tanti corpi celesti dispersi nella profondità dello spazio. Così la metafora si fa sempre più chiara mano a mano che Guzman ribalta la concezione di distanza temporale e trasforma il presente in una continuazione del passato. O meglio nella sua ricezione come se, solo ascoltando ciò è stato, il tempo potesse prendere forma per quello che è nel presente.
Raramente mi succede di conservare memoria così precisa di qualcosa che ho solo sentito una volta ma le parole conclusive del film danno forma linguistica a un pensiero che da lungo tempo mi accompagna. Forse quest’idea doveva ancora trovare una formulazione esatta per poter essere espressa. Così ecco che posso citarle quasi testualmente. “Io credo – dice Guzman – che la memoria abbia una sua forza di gravità perché ci attrae sempre. Chi ha memoria del passato può vivere nel fragile presente. Chi non ha memoria non può vivere in nessun posto”.
Nostalgia de la luz è un film che ho trovato impeccabile nello sviluppo di una narrazione audace che non è propriamente una storia bensì un’articolata riflessione sulla natura del passato e sul suo rapporto inscindibile col presente. Con dolcezza riesce a mostrare gli orrori, altrimenti indicibili, dei desaparecidos restituendoli al presente. E cerca di fondere macrocosmo e microcosmo in una dimensione che è al tempo stesso personale e collettiva. Un film estremamente ricercato anche sotto l’aspetto formale con una fotografia di notevole forza evocativa. Un film rotondo insomma, come la sfera che evoca, dove l’inizio e la fine si uniscono quasi a costruire una sorta di mandala universale intorno al tema della memoria.
NOSTALGIA DE LA LUZ
di Patricio Guzmán
Sceneggiatura: Patricio Guzmán; fotografia: Katell Djian; montaggio: Patricio Guzmán, Emmanuelle Joly; suono: Freddy Gonzales; musica: Miranda & Tobar; produzione: Renate Sachse/Merke Martens per Atacama Productions/Blinker Filmproduction/Cronomedia/Pyramide International/WDR, Cile/Francia/Germania 2010.
colore, v.o. spagnola, st. f/t, 90’
silvana albasini said,
Luglio 2, 2011 @ 18:10Dedico questo meraviglioso film di Patrizio Guzmàn alla memoria del nostro caro cugino e nipote Gino Bianchi Albasini tragicamente deceduto in una gara motociclistica nel deserto di Atacama il 29 giugno appena trascorso. Il destino ha voluto che in concomitanza dei suoi funerali in Cile, la televisione Italiana trasmettesse sulla terza rete nazionale questo documentario, che per l’ironia della sorte mi ha fatto sentire più vicino a lui e ai miei cari in questo triste momento della sua dipartita, ora lui corre tra le dune sabbiose del deserto in sella alla sua amata moto per raggiungere le stelle tanto vicine e splendenti come in nessun’altro luogo della terra, e noi rimasti vediamo da lassù la sua luce che ci illumina. Con nostalgia. Dimaro (Trento) Italia, Copiapò (Atacama) Cile 02 luglio 2011