di Thomas Martinelli
“It was 20 years ago today, Sgt. Pepper taught the band to play…”. A dire il vero, sono quaranta gli anni passati da quando i Beatles apparivano sui grandi schermi per la terza volta, seppur in forma animata.
Dopo A Hard Day’s Night (1964) e Help! (1965) di Richard Lester, regista free cinema che seppe andare oltre la mera operazione commerciale che pure avrebbe soddisfatto fans e produttori, ritroviamo i quattro di Liverpool protagonisti ispiratori di un immaginario rivoluzionario di svolta epocale. Con l’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band il gruppo si smarca con un balzo qualitativo notevole dalla sua vita precedente, intrecciando le complesse orchestrazioni di George Martin con un’iconografia pop sprizzante dalla copertina corale a collage ai testi surreali e colorati dei brani registrati. Come dimenticarsi delle suggestioni lisergiche di Lucy in the Sky with Diamonds e dell’inquietante caos circense propagato in Being for the Benefit of Mr. Kite? Era il 1967, anno prima del gran sovvertimento delle consolidate grammatiche del vivere, pensare, fantasticare, quando i Beatles optarono per una ricerca sonora a tutto campo e per la registrazione in studio a scapito delle esibizioni dal vivo. Da quel mitico disco non avrebbero più fatto tournées né concerti live, se non in occasione dei loro testamentari LP e film documentario Let it be (1970), quando suonarono –per la prima e ultima volta nell’arco di quei tre anni- sul tetto della loro casa discografica Apple (archetipo cine-musicale poi ripreso da altri, fra cui gli U2).
Le storie e i personaggi che sprizzavano dalle nuove canzoni di Paul, John, George e Ringo erano troppo pregnanti perché si confinassero solo nelle ambito delle 7 o 12 note, tanto da ispirare fotografie ed illustrazioni a diversi altri artisti. Quelli del Sergente Pepper certo, poi seguiti dai fantastici mondi del doppio album bianco (Rocky Racoon, il cacciatore ballista Bungalow Bill, Sexy Sadie) e da Abbey Road (Maxwell e il suo martello argentato, Mean Mr. Mustard, Polythene Pam), per non dire del Magical Mystery Tour giocato per uno strano special televisivo ed in seguito nobilitato alla perfezione da Julie Taymor con il suo splendido Across the universe (2007).
Dalla banda dei cuori solitari, recuperando il fermento pre-rivoluzionario del precedente Revolver (1966) con pezzi quali Eleanor Rigby e quello che poi gli dà titolo e canzone d’apertura, esce il 17 luglio 1968 (in Italia sette mesi dopo) il lungometraggio animato Yellow Submarine. Diretto da George Dunning e realizzato da un’équipe di virtuosi visionari dell’animazione, il film segna una pietra miliare del cinema a passo uno e apre di fatto la strada a un certo tipo di film fantastico rivolto anche agli adulti e molto a chi apprezza ricerche stilistiche innovative. Sicuramente più figlio delle avanguardie europee che non di Disney, Yellow Submarine seppe –ovviamente grazie all’onda di successo dei “fab four” che ne sono protagonisti virtuali- imporre al grande pubblico un altro modello di film animato non schiavo del realismo rotoscopico, delle movenze rotonde esageratamente fluide e della logica fiabesca dominanti. Al posto di principi azzurri e animali antropomorfi, il film di Dunning scioglie le briglie a un universo fantastico inedito popolato da biechi blu, pesci improbabili, giganteschi guanti guerreschi, personaggi di passaggio citati da film e fumetti e altre creature inventate.
Yellow Submarine |
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Paese | Gran Bretagna/Canada |
Anno | 1968 |
Durata | 90 min |
Colore | colore |
Audio | sonoro |
Genere | animazione, musicale |
Regia | George Dunning |
Soggetto | Lee Minoff |
Sceneggiatura | Al Brodax, Jack Mendelsohn, Lee Minoff, Erich Segal |
Art director | Heinz Edelmann |
Animatori | Jack Stokes |
Fotografia | John Williams |
Montaggio | Brian J. Bishop |
Musiche | The Beatles |
Doppiatori originali | |
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