di Luca Chiappini
Pensare che il regista del nuovo film campione d’incassi è stato, all’epoca, un semplice camionista, mi riempie di speranza e mi porta a credere che forse in questo mondo c’è ancora spazio per quella creatività e quel prorompente talento che, quando forte e audace, non conosce barriere e può travalicare ogni ostacolo. E’ quanto è accaduto a James Cameron, un tempo semplice camionista che, per hobby, durante i suoi viaggi girava filmini intorno a sé. Così facendo sviluppò un certo talento come direttore della fotografia e, in seguito, venne “reclutato” da un grande della fotografia dell’epoca e assoldato quale direttore della fotografia di Carpenter’s “1997: fuga da New York”. E da lì partì. E così bello pensare che al mondo, in certi campi, si guarda ancora non al lato formale ma al lato pratico.. che nel cinema ci si presenta così: altro che CV, basta un demo-reel in grande stile, con spezzoni dei migliori video che sei arrivato a creare e, se hai talento, BUM. E’ fatta. Forse. Per fortuna. James Cameron di talento ne aveva e ne ha, tanto che non riesce a porsi limiti e desidera superare ogni base già delimitata, sancire nuovi record e, molto spesso, gareggiare coi fantasmi del suo passato, superando per es. un grande film quale “Titanic”. La lancetta dell’orologio corre.. per stare dietro a Cameron, che corre ben più veloce e che ha impegnato gli ultimi anni della sua vita in un progetto così ambizioso.
Ma Avatar ha i suoi limiti. E’ diventato uno stracult per definizione già dal momento della preproduzione, confermandosi col superbo lavoro tecnico compiuto a più livelli, dalle riprese con originalissime e del tutto nuove videocamere a due obiettivi, per riprendere da più punti di vista contemporaneamente e orchestrarli in una dimensione stereoscopica finale, alla ricostruzione di un mondo digitale che rappresenta, nella sintesi dei suoi elementi, un po’ tutto ciò è la storia umana e naturale: la bellezza della natura, il deturpamento del progresso, la barbarie, le multietnicità, l’amore, la guerra, la fedeltà alla propria patria, umana o “avatariana” che sia, la vita come vicinanza ai valori sacri, naturali e tradizionali di una tribù, o a quelli economici, ipertecnologici e oversaturati degli esseri umani. Nei suoi 162′ Avatar sorprende perché tecnicamente, se avete possibilità di vederlo in 3D e nel cinema giusto, così come Cameron lo aveva pensato, la fuga da una bestia selvaggia diventa adrenalinica come non mai, il volo sull’uccellaccio ci gonfia di emozioni e tutto, dai semplici movimenti alla guerra finale, acquisisce una dimensione che fa vibrare ogni singola corda nel nostro coinvolgimento.
Benché il lavoro sia spettacolare, sono da rilevare ancora alcune problematiche.. gli occhialini 3D, arrivati alla loro terza versione, in quasi tre ore di film stancano e provocano mal di testa, ma soprattutto il 3D appare eccellente quando statico, ma ancora confuso, direi quasi interlacciato, quando in movimento. Senza contare che i cinema spesso usano versioni diverse di occhiali 3D: puoi trovare il cinema con gli occhialetti seri, e quelli con occhialetti usa-e-getta -non mi voglio immaginare cosa avranno mai visto con questi ultimi.
Ma questo è comprensibile, tanto di cappello a Cameron e a tutti i tecnici, menzione speciale al direttore della fotografia, l’italiano Mauro Fiore.
Il problema di Avatar sta nella sceneggiatura. Nell’impianto narrativo. Avatar arriva a configurarsi come un intrattenimento da Geode, avete presente? Quel cinema sferico di Parigi, straordinario, il cui megaschermo sferico ti avvolge completamente e ti fa godere una dimensione mai provata. O di un’attrazione come Gardaland. Avatar, insomma, ha richiesto una così incredibile e lungimirante preparazione tecnica da arrivare a far discendere la sceneggiatura direttamente da essa. Sì, Cameron l’ha pensata personalmente, ma inevitabilmente l’impianto narrativo si è dovuto adeguare alla tecnologia, diventando una sorta di tour nel mondo di Pandora e nelle magnificenze del 3D. Cercando di avvalorare le loro conquiste, via.
Si arriva ad un soggetto tipicamente “americanato”, tanto che tutta la storia si può comprendere dopo aver visto più o meno i primi 40′. Basta aver visto qualche campione di tipico film americano: la struttura è sempre la stessa, e non la disvelo per non rovinare sorprese a chi non l’avesse ancora visto. Non c’è nulla che colpisca della sceneggiatura perché è ultrastereotipata, ultraconformistica, ultratipicamenteamericana. La si può ritrovare, cambiandone le variabili ma mantenendone le costanti dei parametri, in decine e decine di altri film. Benché si possano apprezzare alcuni insegnamenti e la seria parodia dell’opera umana, portandoci per l’ennesima volta ad aver disgusto per le nostre azioni, neanche questa è una novità.
Piuttosto il film pare intriso di contraddizioni, a partire dai legami tra Avatar e animali. Più che legami, infatti, si tratta di una mera sovraordinazione degli Avatar, che prendono un totale controllo della bestia. C’è poco di che parlare di legame: l’Avatar arriva a impartire comandi più diretti alla bestia, ma questa non gli comunica nulla. Non è niente di più di un tipico assoggettamento tra padrone e creatura, schiavizzatore e schiavo. E’ ben esemplificato, oltreché dal cavalcare quella sottospecie di cavallo del futuro, anche nel momento in cui il main character doma il volatile.
Inoltre il film, come al solito, incentra la sua ottica sull’azione violenta, distruttrice e deturpatrice dell’essere umano, visto come il distruttore. Al di là della nostra dubbia ottica nel vederci impartire certe lezioni di vita proprio da chi spende milioni per realizzare opere simili alla luce del Sole, mentre nell’oscurità della notte lo spietato business compie gli atti parodizzati nel loro stesso film.. ma ciò che è peggio è la tipica demonizzazione umana e la presunta sacralizzazione indigena. Se infatti la visione 3D avvalora questo rapporto e ne usciamo con una morale scolpita dentro di noi, bisogna inevitabilmente osservare come il demone appartenga, all’interno dell’opera, non solo all’essere umano, ma anche agli Avatar, ostili e chiusi, tanto da aprirsi con estremo scetticismo solo se gli antenati mandano loro segnali. Tanto da arrivare quasi ad uccidere il protagonista con una freccia, nella prima parte. Tanto da essere divisi in tribù inconciliabili. Allora la critica non è all’essere umano, ma in generale all’essere pensante, portatore di caos. Potrebbe essere anche interessante osservare questo punto di vista, questa impossibilità di incastri all’interno di un mosaico, ma in realtà il film non fa altro che forzare sul punto:
Uomo -> cattivo
Avatar -> buono
In realtà il film stesso cade in contraddizione: non ci sono buoni e cattivi, solo esseri caotici, e un solo insegnamento ne esce vincitore: la superiorità (leopardiana?) della natura.
Questo in effetti mi ha colpito: la teoria dei collegamenti sinaptici e neuronali tra gli alberi. E, dietro il palcoscenico di una divinità panica, la natura e i suoi valori, come il tutto. La natura stessa che interviene a placare la guerra.
Ma anche volendo ammettere che l’insegnamento è volto alla superiorità della natura che si ribella all’oltraggio delle creature pensanti ed agenti, ciò non cambia i fatti: la natura può farsi sentire, ma arriva ad essere sottomessa dalle creature pensanti che, con le scuse dei legami, in fondo, altro non fanno che affermarsi ed imporsi.
Avatar è, insomma, un’esperienza mistica ed affascinante in un mondo in cui la spettacolarizzazione assume nuovi livelli e, appunto, una nuova dimensione. Inseguimenti tipici e poco entusiasmanti diventano adrenalinici grazie al supporto di questa innovazione. Diventa un tour nelle potenzialità del futuro.
La trama, invece.. non può dirsi banale, benché stereotipata e scontata, perché comunque lunga e su più piani. Ma sicuramente contraddittoria e di poco conto. Giustifichiamo ammettendo che per un film con così tanti rischi e un tale esorbitante costo, permettersi azzardi di tipo narrativo probabilmente non era nelle intenzioni dei produttori.
Sicuramente si segna una nuova tappa: dopo i primi film (Lumiere, il treno, ecc..), dopo i primi effetti speciali (Georges Melies, ecc..), dopo la grammatica del film (Griffith, Ejzenstein, ecc..), dopo il primo film sonoro (“Il cantante di jazz”, 1927), dopo il primo film a colori (“A visit to the seaside” nel 1908, poi il technicolor, ecc..), dopo le conquiste di grandi registi su più piani (Hitchcock, Lucas, Kubrick, Pastrone, Herzog, ecc..), dopo il primo film di animazione in 3D.. ora il primo film in 3D (e non di animazione, il che non è uno scherzo). E’ una tappa storica comunque.