NELLE LIBRERIE “QUANDO LE ONDE SE NE VANNO” SUL PENSIERO FILMICO DEL REGISTA (DI CULTO) FILIPPINO LAV DIAZ CHE VIENE INTERVISTATO DA MICHAEL GUARNERI SAGGIATORE EDITORE (PAG 227, EURO 24,00).
di Mimmo Mastrangelo
Da sempre il filippino Lav Diaz fa film fuori dal mainstream, spesso in bianco e nero, dalla durata anche di nove-dieci ore e con delle lunghissime inquadrature fisse. Il suo cinema, tuttavia, è oggi “oggetto di culto”, ha un seguito di spettatori in tutto il mondo ed è tra i più corteggiati e premiati ai festival internazionali.
In Italia nel 2016, Diaz si aggiudicò a Venezia il “Leone d’oro” con “ The woman who left”, dolorosa storia di una donna che, dopo trent’anni di carcere per un delitto non commesso , torna in libertà e decide di vendicarsi dell’uomo che l’ha fece arrestare. Tra gli altri titoli più conosciuti della sua ricca filmografia ci sono “Melancholia” (2008), “Florentina Hubaldo, cte” (2012), “Season of the devil” (2018), “The halt” (2019) e l’ultimo “L’essenzial truths of the lake” (2023) su un poliziotto che si fa riaprire il caso su una modella uccisa, mentre le Filippine sono insanguinate dalla guerra alla droga del dittatore Duterte.
Lo sguardo del sessantaseienne regista, nato sull’isola di Mindanao, è rigorosamente artistico, autoriale, non fa alcuna concessione all’ intrattenimento, nei film <<il tempo della realtà e il tempo del racconto coincidono, saldandosi per l’intera durata di ogni fotogramma>>. Altra caratteristica che fa di Diaz un regista fuori dagli schemi è che lavora per scelta con budget poverissimi, per lui non ci vogliono grandi capitali per fare buon cinema, importante avere una visione, un’idea in cui si crede <<poi, prendi il cellulare – afferma – e inizia a filmare>>.
Per conoscere meglio il cinema e un bel pezzo del privato di Diaz sono da consigliare le pagine di “Quando le onde se vanno” (Il Saggiatore (pag.227, euro 24,00) in cui sono unite otto interviste che Michael Guarneri ha fatto con il regista dal 2010 al 2021. Incalzato dalle domande di Guarneri, Lav Diaz srotola la pellicola della sua vita: racconta dei genitori insegnanti (il padre socialista e la madre fervida credente), dell’amore per il cinema sbocciato prestissimo, della folgorazione avuta davanti alle pellicole di impronta civile di Lino Brocka (1939-1991), il più grande regista filippino di sempre.
Confessa Diaz quanto sia importante per lui lavorare a costi bassissimi, condizione che lo tiene distante dalle grinfie dei produttori e dei grandi studi cinematografici. Una libertà artistica e produttiva la sua che è stata agevolata dallo sviluppo della tecnologia, <<Il digitale – dice – è teologia della liberazione, il problema oggi non è più girare>>, ma distribuire un film, trovare nel mondo schermi. Il cinema per Diaz, inoltre, è mezzo per poter responsabilizzare lo spettatore, propagandare un’estetica dei valori sociali e culturali, ma la settima arte deve essere anche memoria.
I film di Lav Diaz, infatti, fanno i conti con la storia delle Filippine, sono narrazioni che mettono a nudo le nefandezze del potere, specie quelle consumatesi durante le presidenze-dittature di Ferdinand Marcos e Rodrigo Duterte. E’ un cinema sul dolore del suo Paese (e del mondo) quello di Lav Diaz il quale, risoluto, vuol ricordarci: <<Arte vuol dire liberarsi da coloro che vogliono controllare la nostra esistenza, dicendoci cosa dire e fare>>.