di Mimmo Mastrangelo
Il calcio per Pier Paolo Pasolini costituiva l’ultima rappresentazione sacra della modernità dove <<un mondo reale, di carne, quello degli spalti, dello stadio si misura con dei protagonisti reali, gli atleti in campo che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso…>>.
Quante volte si è scritto e detto della passione divorante del poeta e regista friulano per il football. Una passione che non era solamente trasporto per il Bologna di cui divenne tifoso negli anni trenta, quando il club rossoblu vinceva gli scudetti e tremare il mondo faceva, ma corrispondeva pure ad un viscerale amore del calciare la palla, del cimentarsi in lunghissime e improvvisate partite con amici e colleghi di lavoro.
Pasolini lo si poteva veder correre dietro ad un pallone ovunque: in strada, tra prati incolti o campi spelacchiati di periferia. Il calcio per lui era un salmo alla gioia, l’innocenza allo stato puro. Calcò pure terreni importanti dove si esibiva (e sempre per beneficenza) con la rappresentativa artisti di cui fu tra i fondatori e il capitano. Tante partite giocò con quella nazionale a cui molto teneva: delle volte capitava che un match coincideva con altri importanti impegni di lavori, ma Pasolini riusciva a trovare puntualmente una scusa pur essere in campo. L’asciutto fisico gli permetteva di sgroppare sulle fasce come una gazzella, non aveva un buon dominio di palla, ma insisteva nell’imitare (in malo modo) il dribbling con “doppio passo” di cui era stato inventore Amedeo Biavati, il suo idolo da ragazzo.
L’ultima volta che fu impegnato in una partita della sua nazionale fu due mesi prima che venisse ucciso. Era la domenica del 14 settembre 1975: nel glorioso “Ballarin” di San Benedetto del Tronto una rappresentativa di vecchie glorie locali si affermò per 4-2 sulla compagine che schierava Pasolini e, tra gli altri, Maurizio Merli, Ninetto Davoli, Giorgio Bracardi, Franco e Sergio Citti.
Sulle tracce di quella gara è andato un giovane professore di lettere, Francesco Anzivino, dalle cui ricerche Giordano Viozzi ha girato poi “L’ultima partita di Pasolini”. Prodotto dalla Sushi Adv col sostegno della Regione Marche e della locale Film Commission, il docu-film mette insieme le testimonianze di alcuni dei protagonisti di quella domenica di quarantacinque anni fa, tra gli altri contributi anche quello del critico letterario Massimo Raffaeli, del musicista Emidio Clementi e di Fabio Capello che ricorda i bei momenti passati con Pasolini in occasione di una partita giocata d’estate a Grado.
Nel film si accenna, inoltre, alla partita che si giocò a Parma tra la troupe del film “Novecento” di Bertolucci e quella di “ Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini. L’improbabile gara segnò la riconciliazione fra i due registi, dopo un precedente screzio.
Invece i giornalisti Valerio Piccioni (è l’autore del libro “Pasolini e il calcio”) e Giovanni Bianconi argomentano lanciando la palla oltre la linea di gioco. Dal loro punto di vista l’anno della morte di Pasolini segnò uno spartiacque nella politica italiana: da una parte diverse città (e regioni) passavano sotto la guida amministrativa del vecchio Pci, dall’altra si faceva incisiva l’azione violenta del terrorismo di sinistra. E non per caso proprio a San Benedetto del Tronto aveva iniziato la sua militanza Patrizio Peci, “il primo pentito delle Br” al quale, per vendetta, gli ex-compagni gli ammazzarono il fratello Roberto.
Con la morte del poeta di Casarsa il Paese andò perdendo la sua innocenza e, passivamente, vide concretizzarsi la “profezia pasoliniana” sul trionfo del fascismo annidato nel conformismo della civiltà dei consumi.
Il docu-film di Viozzi (nelle sale dal prossimo settembre?) si chiude nel tentativo di sciogliere il dubbio sulla presenza in campo di Pasolini a Nettuno l’11 ottobre del 1975, in occasione di un’altra esibizione calcistica di attori e cantanti. Ma dai giornali dell’ epoca non viene nessuna conferma. E tutto sommato poco importa. Il lavoro ideato da Anzivino e Viozzi regge già abbastanza per tutto quello che contiene e narra. E’ un considerevole documento sulla sconfitta di un poeta e di un Paese.