di Gianni Quilici
Sembra all’inizio di trovarsi in un film di Angelopoulos : un uomo in campo lunghissimo con una valigia in mano a piedi perso tra campi innevati. Un lungo piano sequenza, spezzato di colpo da un interno di casa confuso, quasi onirico: chi sia l’uomo, da dove venga, dove vada, mistero.
C’è però una storia, che progressivamente comprendiamo: quel giovane è un operaio licenziato, di un piccolo villaggio dell’entroterra turco. E quel cugino di Istanbul, a cui chiede ospitalità, con la speranza di imbarcarsi come marinaio, è un fotografo abbastanza importante, (anche se disilluso), per avere un bell’appartamento e dei soldi a disposizione.
Tuttavia capiamo ben presto che al regista non interessa la storia come concatenazione di fatti, ma che, al contrario, utilizza questi, per introdurci dentro quegli spazi, quei corpi, quegli sguardi, quei sentimenti.
Evitando un rischio possibile: l’autocompiacimento estetico. Non c’è, infatti, nella lentezza dello sguardo, nella dilatazione dei tempi, nell’apparente insignificanza degli avvenimenti, peculiare dello stile di Ceylan, il privilegiamento della forma o lo scimmiottamento di sé come grande autore sulla scia di un Tarkovskij o di un Antonioni, ma vive la necessità di far emergere desideri, tensioni, conflitti, che disegnano personaggi ricchi di sfumature quasi impalpabili.
Infatti il rapporto tra i due uomini, che è dominante in Uzak, è per lo più silenzioso, si può leggere e percepire nei gesti, nei comportamenti, in poche frasi rivelatrici ed ha un suo svolgimento latente, fino a quando sembra esplodere per poi ritornare quasi al punto di partenza: silenzio, solitudine, rassegnazione, incomprensione, vite che si allontanano, forse che si perdono. Un cerchio che si chiude, un’idea del mondo senza speranze, dove le aspirazioni appena accennate si perdono o si sono perse nella lontananza di quel vago orizzonte. Un dramma inesorabile, senza drammatizzazione.
Però Uzak ci lascia la poesia, ossia la capacità di Ceylan di interiorizzare l’immagine e il tempo cinematografico. Avviene per esempio nelle figure femminili. Il giovane ne adocchia alcune: le punta a distanza, le assapora, le segue perfino. Una volta che decide di farsi avanti con una di queste, viene preceduto dall’uomo che la ragazza aspettava. Eppure, nonostante non ci sia mai un rapporto, in qualche modo concreto, queste ragazze rimangono scolpite, non evaporano. Perché vengono scrutate, desiderate.
Lo stesso tipo di sguardo avvolge progressivamente una Istanbul inattesa sotto una bianca coltre di neve. Le strade quasi vuote e silenti, la contemplazione muta dello scorrere delle acque del Bosforo, la visione delle moschee sulla collina della città finiscono per depositarsi indelebili sulla retina dell’occhio. Anche Istanbul acquista un’anima!
I due interpreti maschili, premiati ex-aequo a Cannes 2003, sono corpo e anima dei personaggi rappresentati. Mehmet Emin Toprak, il giovane della campagna, è deceduto in un incidente pochi giorni dopo la fine delle riprese del film.
Uzak di Nuri Bilge Ceylan. Con Muzaffer Ozdemir, Mehmet Emin Toprak, Nazan Kirilmis, Fatma Ceylan, Zuhal Gencer Erkaya. Durata 110 min. – Turchia 2003.