“Pietà” Kim Ki Duk

di Rita Bacchiddu

Un film coreano che termina con il Kyrie Eleison. Un’invocazione dimenticata. Pietà, perdono, Signore pietà.

Prima di perdonare chiunque è necessario perdonare se stessi attraverso un’intercessione trascendente, che non può risiedere soltanto nella natura umana, il perdono, anche di se stessi, deve avvenire per mano di Dio. Ed è un esercizio infinito, che richiede il canto di questa invocazione incessante.

Kim Ki Duk. Sicuramente è il regista che amo di più, quello che mi emoziona di più nel profondo. Oltre le parole, oltre i dialoghi. Un linguaggio che si nutre di immagini crude, da pittore quale il regista coreano nasce. Immagini che entrano dentro, azioni simboliche che valgono più di mille dialoghi.

Una madre-non madre che invoca un Dio che non può concedere pietà in un mondo in cui ormai il padrone assoluto e incontrastato è il denaro. Una pietà che dunque non esiste in un mondo incentrato e concentrato sui soldi che sono: “l’inizio e la fine di tutte le cose”. Una madre che mangia il testicolo del figlio e subito dopo viene stuprata dal figlio stesso. Un figlio diabolico che scopre l’amore attraverso una donna che è soltanto più violenta di lui, ma incarna la madre che non ha mai avuto e che, incredibilmente e irrazionalmente, desidera più di ogni altra cosa.

Il corto circuito in cui il regista costringe lo spettatore che inizia a chiedersi “ma il male è genetico o procurato dall’ambiente in cui si vive?” e che è costretto a darsi una risposta inequivocabile vedendo il cambiamento completo, totale, dell’apparente demonio non appena si materializza in casa sua qualcosa di simile ad un affetto, che affetto non è, ma è soltanto vendetta.

E, mentre lo spettatore scopre subito l’inganno ed inizia a provare pietà per il demonio, il protagonista demonio lo scopre soltanto alla fine del film costringendo ancora lo spettatore a seguirlo dentro ai suoi sentimenti di sconcerto, solitudine e abbandono.

La recita è evidente quando la finta madre libera il coniglio (il figlio vero, amato, che viene schiacciato da una macchina) e taglia la testa all’anguilla (il figlio orfano, odiato, che lei cucina e glielo offre come colazione), il serpente che aveva ricevuto in dono da lei e che infatti lui non aveva mangiato, ma aveva conservato in un acquario come simbolo di quel legame che desiderava da sempre…

Soltanto alla fine, quando scopre di essere veramente ed irrimediabilmente solo (la finta madre si suicida, per vendetta, davanti ai suoi occhi, non ha pietà di lui!), mentre gli altri, tutti gli altri che lui ha reso ancora più miserabili con il suo lavoro di strozzino, si amano oltre il denaro…è in quel momento che decide di uccidersi. Per mano dell’unica donna che, caparbiamente, lo ha preso a schiaffi e lo ha cacciato di casa con la stessa forza con la quale lui le ha distrutto la vita. La guarda e vede che lei ama suo marito anche se storpio, mutilato e codardo. E si alza tutte le mattine prima dell’alba per lavorare onestamente per entrambi. E’ la sua mano onesta che deve ucciderlo, nello stesso momento in cui lui ha sentito l’importanza dei legami affettivi. Signore pietà.


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