Nel 1993 intervistai Luigi Di Gianni al “Festival del Cinema di Salerno” dove era giurato. Il regista, scomparso nei giorni scorsi a 93 anni, era affezionatissimo alla vetrina salernitana, non solo perché al tempo era in Italia il più importante festival del cinema a passo ridotto, ma in quanto nel 1973 vi aveva vinto il primo premio con “L’attaccatura”, docu-corto girato nei bassi di Napoli su una fattucchiera di origine pugliese e realizzato sotto la consulenza di Annabella Rossi, antropologa di fama internazionale, per molti anni docente alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno.
Con un po’ di imbarazzo, dissi a Di Gianni che non conoscevo nessuno dei suoi lavori, ma volevo comunque fargli delle domande. E lui: <<Se non hai mai visto i miei film, possiamo parlare sempre del cinema più in generale>>. E così fu.
Da una discussione anche piuttosto lunga venne fuori il Di Gianni cinephile, che sin da giovane aveva cercato nelle ombre dello schermo una emozione intellettuale. Scoprii il cinematografaro Di Gianni persuaso dall’idea che le scuole di cinema sono sì importanti (lui stesso fu allievo al Centro Sperimentale di Roma) per chi volesse fare il regista, ma il mestiere lo si impara, innanzitutto, davanti allo schermo, scoprendo il cinema dei primordi, mostrando curiosità per le produzioni dei Continenti e per quelle più nascoste.
Nel giugno del 1994 al Festival di Pesaro, diretto allora dal critico Adriano Aprà, vidi per la prima volta un lavoro di Di Gianni. Era “Pericolo Valsinni” , un corto del 1959 su un contadino che rimane vittima di un grave incidente sul lavoro. Da quest’opera, che nel finale ritrae una cerimonia funebre connotata da un asciutto e contenuto dolore, si scopre non un documentarista classico, orientato ad una concezione zavattiniana del “filmare il durante”, del braccare e registrare il reale con la macchina da presa senza alcuna mediazione, ma un “metteur en scene” dallo sguardo visionario che cerca di cogliere gli aspetti evocativi di una realtà. Distante dai noti maestri del real-cinema come De Seta, Del Frà, Minguzzi, Baldi, il regista napoletano (ma dal sangue lucano per via del padre originario di Pescopagano) con i suoi lavori girati in Basilicata (“Magia lucana”, “Nascita e morte del Meridione” , “Frana in Lucania”, “La Madonna di Pierno”) e in altri posti del Sud il documentario segue una traccia atipica, in cui quasi si vuol lasciare adagiare la verità ad una personale visione.
Di Gianni girerà per il cinema il lungometraggio “Il tempo dell’inizio” (1974) con cui si assicurerà il “Nastro D’Argento” e per la Rai lo sceneggiato “Il Processo” (1978) ispirato al capolavoro di Kafka, ma rimarrà per tutta la vita un documentarista etnografico che con il suo cinema << ha voluto rimontare la realtà per renderla più vera del vero>>.