di Laura Menesini
Una famiglia semplice, povera che vive di piccoli furtarelli, che divide uno spazio minimo, ma unita e amorevole. L’uomo vede una bambina su un terrazzo in una gelida sera invernale e le offre da mangiare. Comincia così la loro avventura. In questa nuova famiglia la bambina è amata, nutrita e coccolata. La vita scorre serena con la “nonna” che funge da perno: mai uno screzio, mai un bisticcio. I componenti fanno i lavori più diversi e più umili, ma alla sera ci si ritrova con la zuppa fumante e le crocchette e i buoni sentimenti riempiono di gioia lo spettatore: sembra inverosimile che in uno spazio tanto ristretto e con tanta miseria in giro, possa regnare una pace da favola e un’armonia invidiabile. Ma la bambina ha una famiglia, una famiglia che non ne ha denunciato la scomparsa per mesi, che l’ha segnata sul corpo, che evidentemente non l’ama, ma che si fa avanti quando ne viene scoperta la sparizione.
La prima parte del film è costruita come una fiaba, una fiaba che procede per quadri e che raggiunge il suo apice in due scene: quella dei fuochi d’artificio che i vari componenti di questa “famiglia” cercano di vedere dal fondo del loro ingresso, piccole marionette costrette sul fondo di questo budello mentre si sentono solo i rimbombi degli scoppi, scena verticale; e poi nella stupenda scena orizzontale del mare, quando la luce inonda lo schermo e tutti sono felici di giocare con le onde, mentre la nonna ringrazia il suo destino.
La seconda parte è quella della razionalità, quella in cui si spiegano tante incognite, quella in cui dominano i colori naturali, il verdognolo delle stanze della polizia e si fa avanti lo scontro tra legge e natura e, mentre la legge “rimette a posto” i vari tasselli del puzzle, la natura e l’afflato conosciuto nella prima parte ti lasciano l’amaro in bocca e ti fanno rimpiangere quella strana accozzaglia di gente che rubacchiava qua e là. La breve conclusione dimostra che “la famiglia per definizione non si sceglie, o forse la vera famiglia è proprio quella che si ha la rara facoltà di scegliere”.
Siamo indubbiamente davanti a un capolavoro per ambientazione, recitazione, fotografia
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La leggerezza della poesia di Gianni Quilici
E’ un film piano, impaginato con piccole sottigliezze quotidiane su un’apparente famiglia (non ci sono legami tra loro) tuttavia unita e serena, che vive di lavoretti e di furtarelli, fatti con arte e naturalezza, che nasconde segreti, che poi esplodono, senza che il regista, Hirokazu Kore-da, li drammatizzi affrontandoli, invece, sia come passaggio di trasformazione psicologica, ma anche come diverso approccio linguistico: dal flusso del quotidiano ripreso con piani d’insieme e un montaggio invisibile al campo-controcampo quando, nel finale, alcuni dei protagonisti si trovano di fronte alla legge e soprattutto a loro stessi.
Finale amaro, ma aperto, sospeso. Questa particolare famiglia si disgrega, ma rimane l’affetto e soprattutto il valore della “scelta”. Ciò che risulta più inquietante è la cittadina, non particolarmente feroce, ma anonima, assente.
Kore-da ricorda, in qualche misura, Kaurismaki: per i personaggi che vivono ai margini, per il loro candore creaturale, per lo sguardo affettuoso, non moralistico con cui li rappresenta, che lascia vivere.
Un film più intenso e riuscito di quanto ad una prima impressione può apparire.
Un affare di famiglia (Shoplifters) di Hirokazu Kore-eda
Giappone, 2018′.
Durata: 121 min.