di Silvia Chessa
Il bello del documentario “Eric Clapton: Life in 12 bars” – lungo ed accuratissimo che ripercorre, nei suoi 135 minuti, tutta la biografia, discografia, successi ..amori e dolori della storia di Eric Clapton- è che ne esci non sapendo davvero chi Eric fosse, sia stato, ed è : se un divertente e brillante partyman (autodefinizione/provocazione ironica rilasciata da lui in una intervista, forse per sfuggire alla carica emotiva della domanda diretta; lui che ha sempre tentato di evadere dalla prigionia dei sentimenti opprimenti), oppure un solitario, travagliato e titanico super eroe , un nero sbiadito in bianco a furia di disperazioni e cresciuto a suon di canti di Chiesa e autentico bluesman.
Che è, poi, tutto sommato, il segreto di ogni piccolo capolavoro. Lasciarti senza certezze, ma con l’audacia di sperare di ripescarle, pian piano, evaporato l’incontenibile turbamento e addomesticato il magnifico stupore per le scoperte fatte.
Fra le scoperte-risposte vi è quella che avvera l’idea che Eric sia vissuto -o meglio dovremmo dire sopravvissuto al suo lacerante senso di inadeguatezza- grazie alla musica: stretto, saldato alla sua chitarra. E che la sua vita, talmente egli la visse da combattente (in lotta contro se stesso, in primis) che sembra non sia stata altro che una svista occorsa fra quelle 12 bars, al netto di sei corde, onnipresenti e vibranti, sotto le sue magiche dita, da Dio del blues.
“Eric is God”, la scritta più sensata e più vera, nella storia dei writers, apparsa ad un certo punto su un muro, e mostrata nel docufilm (giustamente!).
Tanto da incarnare, Eric, quel poetico ‘selfie’ che si scattò Fabrizio De Andrè in due versi: “che dove finiscano le mie dita debba in qualche modo iniziare una chitarra”.
La sua vita che pur fu densa di incontri, esperienze, sodalizi amicali artistici quasi simbiotici a volte. Come quello con George Harrison, col quale, per un periodo, visse talmente a contatto che viene da domandarsi se il suo innamoramento folle per la di lui moglie Pattie (invero una felice ossessione, facendosi lei Musa ispiratrice di alcuni dei pezzi più intramontabili e astrali, come Layla e altri del mitico Unplugged album) non sia stato generato dall’essersi, Eric, prima isolato tantissimo e poi legato morbosamente ed identificato un po’ troppo col suo amico George, al punto da credere, magari, di essere lui.
Ma tanti furono gli incontri con colleghi eccezionali: meno lungo e viscerale ma comunque pervasivo, spiritoso e dal feeling immediato è quello che si vede con Jimi Hendrix.
Tanti, d’altro canto, furono anche gli episodi drammatici (e relativi riverberi) nella sua carriera: fra tutti, ricorderò la tragedia spaventosa della morte del figlioletto Connor, (la paternità del quale aveva letteralmente rigenerato e indotto Eric ad una fertile adultità). Mentre il dolore per la perdita di Connor diede vita – come ben si mostra nel docufilm- alla memorabile Tears in heaven, dall’inconfondibile attacco, che somiglia al pianto di un aquilotto : solo, caduto, esposto, senti che ha però la sua traiettoria fermissima iscritta nel dna, ed è sempre in quelle 12 battute, del suo grido spaziale..ed è del tutto indifferente che il lutto (qui è quello di un padre che sopravvive al figlio piccolo) sia espresso in poesia, come Pianto antico del Carducci, in una canzone (la suddetta), oppure, infine, nel belato di una capra solitaria, dal momento che il dolore, come ci spiegò Saba, è unico, (anch’esso glocal?), nonchè universale, ovvero “ha una voce, e non varia”. In essa voce, per chi sappia ascoltare, può nettamente sentirsi “querelarsi ogni altro male, ogni altra vita”, in eterno ed in differenti circostanze e latitudini opposte.
Per un misterioso paradosso, la personalità di Eric si fa più frastagliata e sfuggente mano mano che, nella visione del film, acquisisce corpo e fama mondiale.
Fra le testimonianze e i lasciti più preziosi del docufilm (tutte meriterebbero una citazione), partirei dalla modestia, dalla misura, dalla saggezza delle parole del grande B.B. King, il quale in un’intervista dove gli viene rivolta una domanda su come ci si senta di fronte a un successo così planetario, ad essere valutato come uno dei re incontrastati del blues, dice: “Se sono piaciuto, se piaccio, mi fa piacere perché così si apriranno delle porte che sono state per tanto tempo chiuse, e non voglio parlare solo di razzismo -dice con un’eleganza direi innata- ma di opportunità varie di far conoscere il blues davvero a tutti e oltre i confini finora prefissati…”
A partire da quella intervista entriamo anche nel vivo della questione razziale.
Sofferta e vissuta problematica dell’America di quegli anni, ma forse, ad ondate odiose e ciclici rigurgiti, ridivenuta ultimamente attuale e anche nostrana…
A fare da contraltare alla cupaggine del razzismo e dell’emarginazione o comunque della sottovalutazione che colpì il blues dei neri, il film ci riporta a galla la coloratissima estetica dei figli dei fiori, la moda degli anni sessanta-settanta..la scioltezza dei balli, il contatto con la natura..le belle coesioni e il senso dell’amicizia più vera, elementi che si riversano anche nelle atmosfere delle canzoni. Le amicizie che sopravvivono a tutto, come quella fra Eric e George che non portò mai rancore al suo amico, anche dopo che ne scoprì l’interesse per la moglie, e che lei, infine, lo lasciò per Eric (tanto che, malgrado ciò, di fatto, George regalò ad Eric una delle più leggiadre canzoni: The badge).
Documentario utile quindi per far luce su questa anima apparentemente fragile e soggetta ad ogni possibile tentazione e droga ma straordinariamente in grado di riemergere dalle paludi (di cocaina, eroina, lsd, ..alcol) e autorigenerarsi. Utile, peraltro, per chiunque volesse principiare/perseverare a dedicarsi a comporre musica, quadri, film o romanzi, in quanto potrà tenere in mente l’aurea legge di BB King: se non hai una storia, un tuo dolore, una rabbia dentro, inutile: non ti ci mettere nemmeno, non andrai oltre le prime due note.
E, del resto, le altre sarebbero un puro esercizio di forma.
Ecco il blues lo vorrei definire un dolore che si suona. Una rabbia placata e fattasi preghiera, canto, inno alla vita.
Un futuro lutto, preavvertito in anticipo, o una mancata accettazione subita col nascere (quella subita a 9 anni, da Eric, trauma semipermanente, da parte dalla madre biologica che lo rifiutò spietatamente, poi gli impose il taglio dei suoi capelli, quasi uno scalpo infame, poi il fratello che si sedette sulla sua chitarra e tranciò di netto il manico; tanto che, di tutto ciò, Eric commenta: volevano disintegrare la mia identità) ma che, sublimata e trasfusa in voce di chitarra e umana, si slega dalle pastoie della cronaca e del quotidiano e si fa esperienza ultraterrena psichedelica. Le arti, in generale, verso cui Clapton si sentiva ed era portato (i suoi disegni, i suoi giovanili quadri: una mano decisa e delicata, un portento!) e in specifico la musica diventa medicina sciamanica, assurge a guaritrice.
Eric, alla chitarra, ritrovava la sua identità; accusato, nel docufilm, da una delle sue mogli di trincerarsi nel mutismo, egli parlava, in realtà, il linguaggio della chitarra come sua lingua primaria. Vi si dava senza riserve, a quel solo amore senza inganni.
Trovando uno sbocco e uno sblocco a tanta solitudine, tanta rabbia, alla voglia di essere amato, di essere riconosciuto.
Per Eric la serenità, (personale e professionale) arriverà, anche se tardiva, e sarà frutto di innumerevoli inciampi, ed errori (non rinnegati!) che hanno composto, piastrella dopo piastrella (il padre era piastrellista), quella sua placida aria da angelo sceso in terra, oggi disteso e non più sospeso.
Il suo astro non si eclisserà facilmente perché, come si è visto, non si vendette alla moda dei tempi, ai dettami e agli schemi della case discografiche, ma li ruppe e li ribaltò, andandosene sempre via, al momento opportuno, e senza firmare rese, o compromessi. Compromettendosi, semmai, solo e sempre con droghe, sostanze psichedeliche, infine alcolici. Fino alla follia, al calvario della astinenza, alla tribolazione delle crisi epilettiche. E sapendo, riemerso, essere grato alla vita e alla popolarità, nel donare parte del suo tempo e della sua fortuna economica per finanziare e sostenere una casa di cura per alcolisti, fiero di farlo. Storia impressionante e perturbante, davvero, la sua, da vero uomo di talento, preda di turbamenti e irridente verso le schiavitù dozzinali e mercantilistiche altrui, da passerotto con ali di ferro.
Tanti i grandi che da queste sue doti e da questa sua nascosta forza furono conquistati, ma anche da lui spiazzati.
Nominerò, per tutti, l’incontro con Aretha Franklin, perché descritto benissimo. In uno studio discografico che Eric giovanissimo frequentava, lei, Aretha, in una sala al pianoforte, suonava e cantava, attorniata da alcuni fra i migliori musicisti .
Invitano a suonare Eric, lo fanno entrare in questa sala-Olimpo : lui è un piccolo fauno dei boschi, capelli lunghi, pantalone rosa, coloratissimo, stivali con i tacchi alti.
Il look dei signori neri del blues è tutto l’opposto: serio, quasi lugubre, al confronto.
Aretha lo guarda e si mette a ridere. Eric inizia a suonare: è giovanissimo ma è già un piccolo dio. Aretha non ride più.
Ecco, basta un episodio, talvolta.
Scoprire poi che dalla lettura di un poemetto persiano sbocciò, fra psichedeliche visioni, l’idea di identificarsi nel protagonista e di identificare la sua amata Patty nella Layla del poemetto, non fa che confermare quella cifra universale, anticipatamente e sentimentalmente glocal, nel senso dell’essere qui ed ora ma anche ovunque nel mondo, e nello stesso istante, quell’universalità che i prodotti d’arte più belli sanno avere: Layla è un canto d’amore afro, persiano…americano..racchiude tutto.
Infine vorrei concludere citando proprio la meravigliosa e struggente scena finale del saluto di BB King al suo, al loro pubblico.
Ha detto divinamente bene B.B.. King (in concerto e in presenza di Clapton): avendo oramai compiuto 84 anni, girato più di novanta paesi, stretto la mano a re, regine e principi vari, posso dire che il più nobile di tutti è Eric Clapton. Ed il maggior titolo di cui voglio forgiarmi è di essere suo amico, e posso solo sperare di morire sentendo le vostre voci, e si rivolgeva al suo planetario pubblico che spaziava dai 18 ai 70, dire che lui, Eric, è il mio.
Che immenso omaggio, che grandissima verità!
Regia: Lili Fini Zanuck
Montaggio: Chris King, Paul Monaghan
Produzione: Zanuck Company/ Passion Pictures (John Battsek)
Colonna Sonora: Gustavo Santaolalla
Distribuzione: Lucky Red
26,27,28 Febbraio nelle sale