“Il ferroviere” di Pietro Germi

DA POCO RESTAURATO IL CAPOLAVORO DI PIETRO GERMI “IL FERROVIERE” .  PELLICOLA  CONSIDERATA TRA LE MIGLIORI DI OGNI TEMPO DAL REGISTA GEORGIANO OTAR IOSELIANI
di Mimmo Mastrangelo

       Agli inizi della sua carriera Pietro Germi (Genova 1914- Roma 1974) fu uno dei nostri registi che non si lasciò condizionare da una certa corrente neorealista, preferì far convivere temi e situazioni in uno stile affine al cinema statunitense.

     Ma una serie di flop al botteghino fu, sicuramente, tra le ragioni che lo spinsero a cambiare registro. E così nel 1956 con “Il ferroviere”, agendo tra il melò ed un codice “tardo realista”, Germi ( da regista ed attore) portò a compimento un lavoro eccellente che, da una parte, lo riaccreditò persino tra quella critica che, fino a quel momento, non gli aveva risparmiato le più sferzanti stroncature, e dall’altra gli permise di raggiungere un inaspettato successo nelle sale.

     Tant’è che il film, oltre a trovare un riscontro di pubblico più nei piccoli centri che nelle grandi città, risultò il terzo campione d’incasso della stagione. Conquistato dal racconto inedito del giovane sceneggiatore Alfredo Giannetti, Germi dovette lottare non poco con il produttore Carlo Ponti per convincerlo sulla sua doppia veste di regista ed attore e lasciar scartare l’ipotesi di Spencer Tracy o Paul Douglas per il ruolo di protagonista. ” A poco a poco – dirà  Germi – studiando nei minimi particolari il volto e le caratteristiche del personaggio mi accorsi che si adattavano a me, che c’entravo dentro coi miei vestiti, col mio modo di fare  e di gestire, di arrabbiarmi  e di essere.

      E a Germi (doppiato da Gualtiero De Angelis) riuscì alla perfezione il processo di identificazione con “la parabola del suo Andrea Marcozzi”, macchinista di treno che deve affrontare un processo a seguito di un incidente sul lavoro ( nell’investire col treno un suicida rischia di scontrarsi con un’altra locomotiva) e delle delicate situazioni familiare: la fine del matrimonio della figlia (un’esordiente Sylva Coscina) e le scelte poco raccomandabili del primogenito.

         Sullo schermo del Festival di Cannes (sezione “Classics”) – nella copia da poco restaurata dalla Fondazione Cineteca di Bologna e Surf Film – “Il ferroviere” è un film popolare che, intrecciando la crisi privata del protagonista con le problematiche del proletariato, fa da specchio all’Italia dell’epoca.

       Intriso, inoltre, di una cristallina narrazione declinante al romanzesco, il film ha una forza drammatica che permette di superare quei limiti che avevano impedito al cinema della stagione neorealistica l’agevole accoglienza tra un pubblico più vasto. Nella vicenda di Andrea Marcozzi e nel contesto sociale in cui si sviluppa si avverte il lento affermarsi di un modello culturale che di lì a poco avrebbe portato al declino di un mondo antico tenacemente radicato in una morale che trovava nella famiglia la sua più significativa espressione. All’uscita del film nelle sale in un’intervista al settimanale Oggi Pietro Germi dirà: < < Ho girato “Il ferroviere” per gente all’antica>>.

        Molto amata e studiata nelle scuole di cinema dell’Europa dell’est, la pellicola è stata inserita da un regista del calibro del georgiano Otar Ioseliani tra le migliori di tutti i tempi. “Quando vidi  “Il ferroviere”  ne rimasi sconvolto – ha detto Ioseliani – in esso il valore umano è posto ad una tale altezza che mi ha veramente colpito. Sarei contento  che le generazioni future possano avere il piacere di conoscere l’opera di uno dei cineasti più grandi nella storia del cinema”


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