di Mimmo Mastrangelo
Ad un certo punto della sua carriera Vittorio Cottafavi (Modena 1914 – Roma 1998), quasi come se avesse perso fiducia nella produzione per il grande schermo, iniziò a girare una serie di sceneggiati per la tv di altissima qualità oltre che seguitissimi dal pubblico, tra questi si pensi alla versione italiana dei “Racconti di Padre Brown” con Renato Rascel nei panni del prete investigatore dell’omonima opera letteraria dell’inglese Gilbert Keith Chesterton.
Quasi a voler riprendere una certa indagine sulla condizione femminile nella società italiana – già affrontata lungo una traiettoria melodrammatica trent’anni prima con “Una donna ha ucciso” (1952) e poi “Nel gorgo del peccato”( 1954) – Cottafavi nel 1981 gira per Rai3 il film in due puntate “Maria Zef”.
Tratto dal romanzo omonimo della scrittrice veneta Paola Drigo (1876- 1938) e da poco restaurato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino insieme alla Cineteca del Friuli, il film è stato presentato al Festival di Venezia nella sezione dei Classici ed appena qualche giorno fa l’hanno proiettato a Trieste alla XVIII edizione del Festival Milleocchi.
Forte, cruente quanto alcune narrazioni di Matilde Serao o Grazia Deledda, il romanzo della Frigo, vincitore del “Premio Viareggio” nel 1937, si propone modernissimo per la condanna che rivolge al machismo che subordina la figura della donna. E a Cottafavi va il merito di non essersi lasciato sviare da tentazioni che l’avrebbero fatto allontanare pure da quel senso di compassione e pietà che attraversa le pagine della Drigo . <<Una ragazza, una bambina, un giovanotto e uno zio – dirà in un’intervista il regista – sono sufficienti affinché un brandello di verità del mondo ci proponga l’interrogativo al quale forse non sappiamo dare una risposta se non attraverso il sentimento della pietà>>.
Con attori non professionisti, dialoghi in stretto dialetto friulano (per questo sono stati necessari i sottotitoli) e riprese fra Udine e i territori della Carnia (Forni di Sopra ed Arta Terme), “Maria Zef” è il dramma di una ragazza e della sua sorellina che, morta la madre, vengono affidate ad uno zio (il poeta Siro Angeli, col regista firma pure la sceneggiatura) che abita in una baita di montagna. Sottomesse e schiavizzate le nipoti, l’uomo arriverà ad abusare di Maria (Renata Chiappino) la quale, ferita nel corpo e nella dignità, ucciderà il molestatore nel tentativo anche di ritrovare la propria libertà e quella della sorella Rosute (Anna Bellina).
Ultimo lavoro nella carriera di Cottafavi, il “Maria Zef” cinematografico per il contesto sociale di povertà in cui sviluppa può fa ricordare altri due toccanti film italiani, “Gli ultimi” (1963) di Vito Pandolfi e padre David Maria Turoldo e “L’albero degli zoccoli” (1978) di Ermanno Olmi, ma la sua riuscita trova base d’appoggio sulla lucidità di una regia che ha saputo rivestire la storia di Maria e Rosute di classica trasparenza e collocarla <<sotto il segno di una profonda e controllata passione>>.