di Nino Muzzi
Questo film si presenta come una porta chiusa, dura da sfondare. Una chiusura che si legge nel volto della splendida protagonista, Melissa McCarthy, il quale fa di tutto per essere ostile, impenetrabile, antipatico, stizzoso, altezzoso, sarcastico nei confronti di uomini e donne e che si apre al sorriso solo con una gatta bianca e nera, per il vero del tutto indifferente nei confronti della padrona.
Si parte di lì, e lo spettatore si vede già perso, in quanto privo di appigli identificativi – si va al cinema per entrare nel film, ma qui tutte le porte son chiuse!
Ad un tratto però si capisce: c’è una porta aperta e non l’avevamo ancora vista. È il volto della protagonista, e si potrebbe quasi affermare che è lui il vero protagonista e non la donna intera, che invece ci appare sgraziata, goffa, malconcia, vestita di stracci, sporca.
Il volto la riscatta completamente. Basta sapere entrare in quei tratti apparentemente piatti e insignificanti per rendersi conto dell’esatto contrario. C’è infatti una grande finezza espressiva, fatta di piccoli movimenti di labbra e sopracciglia e dell’altalenante inumidirsi degli occhi. Il resto è immobile. Solo raramente il portamento fisico: passo, gesto, postura del corpo, ci conduce alla scoperta dello stato d’animo del personaggio in un determinato momento del film. Solo quando la cinepresa si avvicina a quel volto possiamo capirlo: ora sbotterà in una delle sue sarcastiche uscite o s’intenerirà, perdonerà chi l’ha tradita, o si accosterà con un velato approccio amorevole alla solitudine di un’altra donna che l’ammira.
Il film sta tutto qui, non sta nella storia, nella trovata comunque geniale di falsificare le lettere di una scrittrice per sentirsi tutta in quel momento nei panni e nell’animo di quella scrittrice stessa. E lei lo dice di fronte al giudice, quando viene scoperta e condannata, dichiarando di non essere pentita di quel che ha fatto, in quanto quei momenti l’hanno risarcita di una sua perdita di vena creativa.
In una delle prime scene del film, durante un party fra intellettuali, uno scrittore, ambizioso e fascistoide, dichiara che la vena letteraria non si secca mai, e lei mormora nel suo bicchiere di whisky: “Coglione!”
Questo è il tema “dichiarato” del film: la perdita d’ispirazione di una scrittrice sprofondata nella misantropia e nell’alcool. Un recupero di creatività dunque è il risvolto della medaglia del plagio che non significa copiare, bensì creare con lo stesso spirito dello scrittore plagiato.
Per un altro verso il film riapre proprio la vecchia diatriba sul falso. Infatti il titolo si potrebbe parafrasare usando l’espressione : “ un falso d’autore”. E questo è un fenomeno che si riscontra piuttosto diffusamente in letteratura, dove un autore sta plagiando se stesso, perché scrive secondo stilemi e non secondo uno stile. Anche Baudelaire talvolta bodelereggia…
COPIA ORIGINALE
di Marielle Heller. con Melissa McCarthy, Richard E. Grant, Dolly Wells, Jane Curtin, Ben Falcone. Titolo originale: Can You Ever Forgive Me?. USA, 2018, durata 106 minuti.