“Euforia” di Valeria Golino

di Silvia Chessa

Euforia, film drammatico ma non privo di spunti leggeri e comici, si inserisce, per certe tematiche, in quel filone che, a partire da I Vitelloni e passando per Il sorpasso – piccolo capolavoro di euforia scatenata e corriva (le parole sono di Vittorio Gassman)-, arriva sino ai nostri giorni, pur senza trovare, talvolta, un corrispettivo all’altezza di quei classici ineguagliabili.

Ma ci continua a parlare, in qualche modo, di corse e di sorpassi euforici, dell’agitazione del vivere, onde ingannare ansie e vacuità. Euforia, il titolo del film, non è gioia, è allegrezza effimera, non è vittoria né pace, ma solo una tregua.

E questo filone ideale di film succitati ha un comune denominatore: introdurre e sottoporci, indirettamente, un dubbio morale, mentre si fa luce su una munifica magnanimità, lesta a mutarsi in astio, sfida, provocazione e sberleffo, sia pur camuffato con aria simpaticona.

Penso ad esempio allo spernacchio di Alberto Sordi (“lavoratori?!..”) e poi alla scena di Euforia in cui Matteo (Riccardo Scamarcio) salta sopra una mendicante, inginocchiata per terra, usandola come una asticella per dimostrare la sua euforica atleticità davanti a tutti.

Questi gesti, di irrispettosa e irridente provocazione, sono però intrinsecamente fusi con la natura fanciullesca e picaresca di Matteo, Giano bifronte che oscilla fra narcisismo e magnanimità, ilarità, socialità e disturbi da tossicodipendenza.

Questo film, -il secondo di un percorso di Valeria Golino sulla malattia, la bellezza e la fine della vita-, è una sfida complessa e ardimentosa, che la vede passare dal singolare al plurale, dall’intimismo di “Miele” all’affresco corale e polifonico, che si articola intorno alle vicende di due fratelli, un po’ improbabili nei loro dialoghi o nel loro mutismo (Ettore), i quali ritrovano una fratellanza, che era frastagliata, in una drammatica circostanza.

La materia della malattia va imperniandosi attorno ad un dubbio, una scelta etica, era in Miele (eutanasia sì o no) ed è in Euforia (rivelare o meno tutta la tragica fatalità del male all’ammalato?), dubbio che, intelligentemente, rimane aperto, non si dà per risolto.

Il linguaggio del film è sicuramente un linguaggio al femminile, cosa che può stonare e stordire, ma non se si pensa al lato omosessuale e alle mistificazioni di Matteo e alla introversa natura di Ettore (impersonato da Valerio Mastandrea).

Insomma si respirano sottigliezze e stratificazioni nei dialoghi, una comicità raffinata e appena accennata, e una voglia di chiudersi e schiudersi, lanciarsi nel moderno per poi rituffarsi nel passato. Si sente il richiamo all’estetica della bellezza, per esempio nella eleganza di interni (la casa di Matteo è dotata di effetti luce che rendono invisibile la persona fra un vano e l’altro), e poi nella raffinatezza demodè del bianco e nero di Stanlio ed Ollio (la scena nel corridoio dell’ospedale dove Ettore e Matteo li imitano)

Il film parla anche di narcisismo. Quasi patologico quello di Matteo diviso fra infantilismo e  grande generosità, ma la sua strafottenza, la sua ὕβϱις, sarà anche la sua Νέμεσις.

E quel giocoso sfidare ogni situazione persona e sentimento lo pagherà gettandosi a capofitto nel tentativo di proteggere il fratello dalla malattia gravissima scoperta.

La bellezza protegge la bellezza, è detto nel film. Si parla altresì di business della Misericordia: Ettore accusa il fratello minore di ingentilire i campi profughi con il parquet.

Qualcosa che non risolve il problema, ma lo infioretta. Come l’euforia che non è la gioia, abbiamo detto, ma addirittura le è nemica, così la nostra società inietta veleni che pompano l’umore su in alto in modo effimero, labile, ci crea dipendenze, bisogni, laddove un tempo c’erano desideri; questo passaggio, triste ed epocale, dall’era del desiderio a quella del bisogno, spesso tossico, emerge dal film.

Nonostante si viva nella Disneyland delle potenzialità e possibilità infinite, la malattia ci si presenta in modo inevitabile.

E quello che Matteo si sforza di fare, ovvero dissimulare la malattia, rinnegarla, commettendo gli errori più cialtroni, non porta altro che ad un bagno di bollicine euforiche, condivise con amici tristi e soli altrettanto di lui.

Matteo è emblema di un Occidente che non vuole invecchiare e non vuole sentirsi malato, mentre lo è.

Tutto ciò passa attraverso il film ma non è il film: il film sono gli umori, l’andatura di chi lo pensa. E se vogliamo capire l’umore di questo film dobbiamo ascoltare un vecchio brano: In a Manner of Speaking, presente nel film sia nella versione originale eseguita dai Tuxedomoon, sia nella favolosa cover dei Nouvelle Vague.

E direi di ascoltarla con la prospettiva di quei ragazzi che, passando, nella notte, affianco alla macchina di Matteo e dei suoi amici, si complimentano per la scelta della canzone: “Vecchia ma bella” dice una voce femminile, con incantamento.

Come Perseo ha gesti di delicatezza e gentilezza inusuale, per un vincitore di mostri, verso la testa mozzata di Medusa, e la depone, dice Ovidio, su un letto di foglie sulle quali la sottile grazia del corallo si affiancherà, visivamente e ossimoricamente, alla mostruosità della sanguinante Gorgone, così possiamo pensare convivano, in questo Matteo della Golino, eroismi e patetismi, delicatezze e brutalità.

D’altro canto la riflessione sulla necessità di salvarsi, dalla brutalità e mostruosità del mondo circostante, aggrappandosi a qualcosa di fragile, effimero, euforico, e di sottile, parte da Ovidio e arriva a Kundera, passando per Montale e la sua “traccia madreperlacea di lumaca o smeriglio di vetro calpestato..la cipria nello specchietto” conservata come un amuleto nella borsetta.

Cosa c’è di male, allora, se in questo film si parte e si approda all’effimero: affascinati da un volo di storni romani (Gli storni romani è anche il titolo di una canzone originale firmata per questo film da Nicola Tescari) sopra il Circo Massimo, i due fratelli si perdonano i rispettivi torti, si riabbracciano.

Le qualità di un film appartengono, come quelle di un romanzo, ad un universo parallelo a quello del vivere.

E dunque non rimane che farsi dare, dall’arte, una sonora strigliata oppure una effimera e surreale carezza.

La nostra dipendenza dalla ricchezza e dalla celebrità ha iniziato a svuotare il valore della vita normale, e il film dà una sublime strigliata a questo atteggiamento” Owen Gleiberman su Visages e Villages di Agnes Varda.

È bello considerare che due grandi donne, due brave registe, abbiano pensato, quasi in contemporanea, alla medesima idea, ad un dubbio etico, realizzandolo su piani e prospettive diametralmente opposte.

Euforia

Regia: Valeria Golino

Soggetto: Francesca Marciano, Valia Santella, Valeria Golino

Fotografia: Gergely Poharnok

Montaggio: Giogiò Franchini

Musiche originali: Nicola Tescari

Cast: Riccardo ScamarcioValerio MastandreaIsabella FerrariValentina CerviJasmine TrincaAndrea GermaniMarzia Ubaldi

Prodotto da: HT Film, Indigo Film con Rai Cinema

Distribuzione: 01 Distribution

Anno: 2018

Durata: 115 min


Lascia un commento