Il docu-film “Van Gogh tra il grano e il cielo”, per la regia di Giovanni Piscaglia, nelle sale il 9-10-11 Aprile, presenta, attraverso 300 tra dipinti e disegni della collezione privata lasciata da Helene Kröller-Müller, un ritratto straordinario e toccante del grande pittore olandese di cui è narrata la parabola artistica, secondo il racconto di alcuni studiosi e storici dell’arte, tra cui Marco Goldin (curatore della mostra tenutasi alla Basilica Palladiana di Vicenza con le opere del Kröller-Müller Museum di Otterlo, in Olanda) cui si affiancano le riprese realizzate nei luoghi che videro fiorire l’arte di Van Gogh (Nuenen, Parigi, Bruxelles, Auvers-sur-Oise).
Intensa anche se breve, solo dieci anni, fu la vita artistica di questo pittore, di cui colpiscono le tematiche, le rivoluzionarie novità tecniche, l’eccentricità della personalità e la voracità di stili contaminati fra loro nella sua produzione artistica che ha cambiato il corso della pittura ma anche del pensiero.
Il divino fanciullo olandese andò oltre ogni contemporaneo e si spinse oltre i suoi limiti (in una strenua lotta contro l’epilessia, la malattia mentale e le ristrettezze economiche per le quali dovette chiedere al fratello Theo ogni cosa di cui necessitava per lavorare); sospinto da una irriducibile ansia di assoluto, di andare alla radice della vita, legando il terreno all’ultraterreno, Vincent espresse la sua spiritualità nella totale adesione agli ultimi della terra: di se stesso diceva di essersi “istruito all’Università della miseria, per le strade”. Aveva fatto Il predicatore ed era approdato tardi, intorno ai 27-30 anni, alla pittura, per molti critici senza possedere un innato e spiccato talento, ma facendo convergere, nella pittura, la sua forza benigna. Quella stessa volontà salvifica che lo aveva mosso a farsi predicatore, si incarnò nella pittura. Il suo percorso di predicatore non si interruppe ma semplicemente passò dalla Bibbia al pennello. Ispirato da questa sua volontà di redimere il mondo, e dalla sua sete di assoluto, dipinse la bellezza e la fatica della vita nei campi. La natura è vista con occhi di credente, all’insegna di un sacerdozio del colore e della pennellata: gli olivi di Vincent hanno rami nodosi, aggrovigliati, come braccia che si protendono supplici verso un cielo carico di inquietudini. Molti suoi quadri incarnano la durezza della vita di contadini, fabbri, cucitrici…persone che egli aveva osservato da vicino e a lungo, senza distacco, bensì come uno di loro:
“Cosa sono io agli occhi della gran parte della gente? Una nullità, un uomo eccentrico o sgradevole (..) Ebbene, anche se ciò fosse vero, vorrei sempre che le mie opere mostrassero cosa c’è nel cuore di questo eccentrico, di questo nessuno..”
La sofferenza dei “Contadini che seminano patate” (1885) è parte del tutto, di un tutto che fatica, e che soffre, ma di una sofferenza che vivifica: e non vi è differenza fra un contadino e un olivo, non importa se i suoi “Mangiatori di patate” (1885) hanno tratti rozzi e animaleschi, o se mai vi fossero elementi ingenui o addirittura dilettanteschi nella sua pittura, e se i cinque protagonisti sono immersi in un ambiente che sa più di antro, di muffa, di stalla, che non di casa..E non importa neppure che Vincent abbia dichiarato di essersi, invece, ispirato alla “Cena di Emmaus” di Rembrandt, quadro dalla tecnica sofisticata e molto lontano dallo stile di Van Gogh… perché, malgrado tutto, il quadro di Vincent trasuda poesia da ogni poro, e trasmette una temperatura umana, una sacralità, silenziosa e laboriosa, che non hanno precedenti e paragoni. Gli ulivi sembrano modellarsi sulle sofferenze del Cristo nell’orto del Getsemani. Una natura quindi antropomorfizzata e sacralizzata e lui quasi un vate di un panteismo pittorico..
Il suo merito è stato quello di prenderci per mano e guidarci nei sentieri che egli stesso mai abbandonò, tenendosi aggrappato alle sue radici come un olivo ben piantato ma proteso al cielo: fra grano e cielo.
Anche la Parigi, in pieno fermento culturale ed artistico, nella quale approdò nel 1886, fu da Vincent dipinta con quei connotati terrosi e campagnoli delle sue terre di origine ed amate: dandole spessore, candore e densità.
Il sudore che imperla la fronte dei raccoglitori di patate è rugiada che stilla candida e impreziosisce la tela, le sue stelle della “Notte stellata” (1889) sono girandole esplose di fuoco, ventagli giapponesi che muovono l’aria ed addensano i colori notturni, rischiarando le tenebre e sovvertendo il senso del notturno, dalle fatiche del giorno alla festosa quiete della sera.
Il respiro universale che Vincent ricercò ovunque e senza posa per tutta la sua breve e dolorosa vita è tutto nei suoi dipinti.
Ed Helene questo lo capì, e lo volle fare comprendere al suo secolo e a noi suoi eredi. Loro due non si conobbero: Helene aveva undici anni quando Vincent morì, ma le loro anime colloquiarono, si fecero compagnia, si unirono virtualmente, e per sempre.
Innumerevoli ed incredibili le affinità e le analogie fra loro due. Ci fu, per via telepatica e a distanza temporale, un immaginario ma fertile incontro pieno di poesia, delicatezza, sospiri, scritture, slanci e solitudini silenziose che meriterebbe un altro film e, prima ancora, un romanzo.
Helene, come Vincent, scelse di dormire, malgrado le sue ricchezze, in un lettuccio in stile monastico, anch’ella scriveva lettere in quantità (fitto ed appassionato l’epistolario che ella tenne con Sam van Deventer, quanto quello, molto affine per toni, interessi, passioni espresse, di Vincent con Theo), era riservata e tenace, trovava benessere nell’immergersi nella natura, era avvinta dalla bellezza in modo fanciullesco ed incontenibile (vedi sue cartoline da Venezia, da Firenze e da Roma), e risorgeva dalle amarezze, temperando il suo carattere nelle solitarie, infinite passeggiate nel verde…Ma, soprattutto, trovava conforto e senso alla sua esistenza nelle opere di Vincent. Tanto che non le bastò collezionarle e circondarsene, bensì, da sacerdotessa della pittura, volle dedicarvisi in modo totalizzante. La missione che Helene si auto assegnò fu dare al suo Van Gogh la gloria mancata in vita.
Ed alla fine, dopo tanti ostacoli e peripezie anche finanziarie (la crisi economica del 1929 e poi gli investimenti sbagliati in cui incorse il marito), per sua tenacia e per nostra fortuna, le riuscì.
“Now I understand
what you tried to say to me
How you suffered for your sanity
How you tried to set them free
They would not listen, they did not know how
Perhaps they’ll listen now”.
(Don McLean’s, “Vincent”/ “Starry,Starry Night”, 1971)
VAN GOGH TRA IL GRANO E IL CIELO
Regia di Giovanni Piscaglia
Soggetto e sceneggiatura di Matteo Moneta
Con la consulenza scientifica e la partecipazione di Marco Goldin
DOP Lorenzo Giromini
Musiche originali di Remo Anzovino
Montaggio Valentina Ghilotti
Produttore Esecutivo Veronica Bottanelli
Prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital
Con la partecipazione straordinaria e la voce narrante di Valeria Bruni Tedeschi