Nel 1998 Ugo Pirro pubblicò per Einaudi “Soltanto un nome nei titoli di testa” che è una delle sue autobiografie romanzate “. Il titolo del volume è significativo, per dire in fondo che nel cinema lo sceneggiatore “è tenuto poco o niente in conto “, passa per un manovale, una figura tenuta ai margini rispetto all’esposizione pubblica e ai riconoscimenti che possono avere attori e registi.
Vent’anni dopo in quel titolo vi si può leggere l’epigrafe di un oblio, di come il nome di Ugo Pirro sia stato dimenticato nel nostro Paese. In questi giorni ricorre il decennale della sua morte e nessun cronista cinematografico si è ricordato del posto che ha occupato nella storia del cinema italiano che va dagli anni cinquanta ai settanta.
Nato a Salerno nel 1920 – ma la sua famiglia era di Battipaglia dove un suo nonno divenne il primo sindaco della cittadina della Valle del Sele – Ugo Pirro è stato uno di quegli scrittori di cinema che il mestiere l’ha imparato ubriacandosi di letture romanzesche, senza frequentare nessuna scuola specializzata come fanno adesso i giovani che aspirano ad affermarsi in nuovi autori.
Dopo aver lavorato cronista, esordirà nel cinema con “Achtung! Banditi!” (1951) di Carlo Lizzani, già da questo film sulla lotta partigiana in Liguria, sono più che evidenti le caratteristiche di una scrittura successiva incardinata tra ricostruzione storica, studio delle problematiche sociali e presenza di atmosfere cupe dentro cornici da film giallo. In oltre cinquant’anni di carriera, intervallati dal lavoro di romanziere e giornalista, Pirro diventerà un alfiere della nostra cinematografia impegnata e politica: con Lizzani lavorerà ancora nel 1960 per la produzione de “Il gobbo” e successivamente per “Il processo di Verona” (1963),”Svegliati e uccidi” (1966), “L’amante della Gramigna” (1969).
Nel frattempo che il suo romanzo “Le soldatesse” verrà portato sullo schermo da Valerio Zurlini, altre pellicole in quei magici anni di impegno civile vedranno collocato il nome di Pirro nei titoli di testa : da “Sequestro di persona” (1967) di Giovanni Mingozzi, a “Il giorno della civetta” (1968) di Damiano Damiani; da “La battaglia del Neretva” (1969) di Veliko Bulajic a “Il giardino Finzi e Contini” (1970) di Vittorio De Sica.
In tutto lavorerà in più di cinquanta produzioni, ma sarà il sodalizio con Elio Petri (e Gian Maria Volonté) che lo consacrerà tra i maestri sceneggiatori e lo porterà a vincere una fila sterminata di premi e l’Oscar (saranno due ). “A ciascuno il suo” (1967), “Indagine su un cittadino al sopra di ogni sospetto (1970) e “La classe operaia va in Paradiso (1971) sono opere in cui la scrittura di Pirro e lo sguardo di Petri si misureranno sul rapporto, non sempre decifrabile, tra l’uomo e l’ autorità, tra l’uomo e una giustizia che si (auto)assolve dalla propria mendacità e corruzione. Ultimo film a cui Pirro metterà mano, fornendo una traccia romanzesca ad un fatto di cronaca, sarà “Il giudice ragazzino” (1993) di Alessandro Di Robilant sull’agguato mafioso nel 1990 a Rosario Livatino, il giovane magistrato che in quel tempo stava indagando nell’agrigentino su un perverso intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata. Sul finire degli anni novanta Pirro (ma il suo vero cognome era Mattone) porterà a termine, insieme ad Andrea Purgatori, una sceneggiatura sul coinvolgimento di Adriano Sofri nell’uccisione del commissario Calabrese, quel testo, nato da una documentazione attenta degli atti del processo e degli archivi delle cronache, non avrà mai una trasposizione sullo schermo, ma lascerà come testimonianza il pensiero dello sceneggiatore salernitano: “Non c’è niente, assolutamente niente che provi il coinvolgimento di Sofri nell’assassinio di Calabrese”