“L’insulto” di Ziad Doueiri

insdi Silvia Chessa

L’insulto di Ziad Doueiri è  un film che ci interroga e ci induce a rimestare in profondità le nostre certezze.. a soppesare parole, fatti e circostanze.

Beirut: un libanese cristiano, Tony, provoca un bravissimo e zelante operaio palestinese rifugiato, Yasser, fino ad ottenerne un pugno, sferrato a seguito di grave insulto ed offesa violenta.
L’aggredito, fisicamente, Tony, chiede giustizia e ricorre ad un avvocato smaliziato e fortissimo che nulla ha da invidiare a John Milton, satanico “Avvocato del diavolo” (impersonato da De Niro), nel film di Taylor Hackford.
Mentre Yasser assume un profilo defilato e rinunciatario.
Vittima e carnefice sembrano avere volti e profili chiari.

Ma i colpi di scena esistono e non tardano a manifestarsi. Le parti si sovvertono.
Persino coloro che ne assumono la difesa, i due avvocati delle opposte parti in lite (si scopre all’apice del dibattito) sono padre e figlia!!
Segno evidente che in seno alla stessa famiglia, alla radice di valori comuni e trasmessi da una stessa educazione, dal medesimo ceppo, le strade possono andare a divergere : infatti la giovane (generazione) va contro il padre (i padri).
Sceglie di fare il salto.

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Colpiscono almeno tre grandi affermazioni e tre temi cruciali, imperniati attorno al nucleo insulto-vendetta.
La necessità di cercare, in ogni controversia, di soppesare le parole. La lezione da apprendere è quella di teorizzare una equazione fra parole ed azioni.
Un insulto alla dignità, equivale in qualche misura  ad un pugno al torace che incrina le costole di un popolo che si sente offeso? La costante e perpetua mortificazione di una cultura, di una tradizione, può essere reputata causa bastante a scatenare una reazione anche fisica?
Esiste un limite a quanto possiamo, tutti, istigarci ancora reciprocamente e al vittimismo brandito come legittimazione per qualsiasi crociata senza fine?

Inoltre, come valutare il caso in cui a quegli effetti fisici ricevuti materialmente – il pugno, la costola rotta –  la vittima (le vittime) aggiunge/ono il proprio personale autolesionismo, fino a farsi venire, ad esempio, un danno grave e permanente? E se, perseverando nella condotta di aggravare l’insulto subito, quindi a farsi più vittima del dovuto, si arriva a creare ulteriore danno (il prematuro parto della donna, imputato a stress, anch’esso da risarcire) anche a persone circostanti? Tutto questo dolore a chi esattamente si dovrà  attribuire?

Lo svolgimento del film -legal thriller oltre che dramma  di attualità con radici storiche- aiuta (se non a dirimere) a focalizzare, ai nostri occhi, i nodi delle suddette questioni; senza forzare risposte o suggerire banali verità.
Nel film, poi, un sorriso e un riavvicinamento avviene, si avverte il buon senso spuntare all’orizzonte, ma la matura originalità di Ziad Doueiri resiste. Evita, infatti, di far riappacificare i due contendenti in strette di mano, abbracci, riti di perdono -che pure ci si aspetterebbe (tanta è l’empatia che i due protagonisti sanno suscitare).

Si rimane catalizzati e avvinti da questa storia perché il nazionale si fa universale, l’insulto come stile -incivile- ci governa, oggi, e ci danneggia a tutte le latitudini.
E la vicenda del film indirizza i nostri ragionamenti e slanci emotivi attorno a grandi concetti, saldamente connessi.

La parola è arma alla pari di un pugno,  oppure, viceversa, la stessa parola può farsi strumento di distensione nello schiudersi a messaggi di perdono. Un inno implicito, ne deriva, non tanto ad una fredda ed opportunistica diplomazia quanto al comunicare con cura, e con attenta responsabilità.

Da un insulto della storia, dopo 40 anni, ci insegna la sapiente avvocatessa, si può andare avanti, procedere oltre, senza per questo mancare di attenzione, di rispetto e di sensibilità verso il passato traumatico. La avvocatessa ha parole sempre pacatissime, civili, ferme ma dolci, molto più del padre, il quale sostiene con veemenza quasi spregiudicata la causa del suo assistito, il libanese provocatore che ha ricevuto il pugno. Lei sceglie parole gentili e struttura affermazioni  precise, mai sottovalutando le ferite della controparte.
Vuole solo seppellire l’ascia di guerra che, invece, il padre (le vecchie generazioni, più in generale), tiene in pugno e non esita ad ostentare opportunamente e senza riserbo.

Infine il ruolo giocato dal contesto, psicologico-ambientale-religioso-familiare, è fondamentale: lo stato emotivo esasperato ricorre spesso nelle arringhe dei due avvocati, e la lezione della storia ci raccomanda di tenerlo sempre bene a mente.
Esso è però arma a doppio taglio.

Da ambo le parti in lite ci sono precedenti: traumi e motivi genealogici antichi.
Ma quando sarà abbastanza remoto, il passato, per dire basta al sistema globale di ripicche e vendette, e azzerare i conti su questo pianeta?
I nuovi nati, in una incubatrice come il neonato del libanese del film, hanno bisogno di padri disposti a riaccendere i fili della macchina del futuro, da bravi meccanici ed onesti uomini.
E di madri che ricordino loro che le battaglie per il loro orgoglio ferito sono da riporre in un cassetto con la scritta “questioni private”, deponendo il gusto perverso di farne una questione di Stato, e di bloccare la Storia che merita, invece, di crescere sana e libera dalle zavorre malate di permaloso narcisismo e di retrograda intolleranza reciproca.

insultoL’INSULTO

Regia di Ziad Doueiri. con Adel Karam, Rita Hayek, Kamel El Basha, Christine Choueiri, Camille Salameh Titolo originale: L’insulte.

Libano, 2017, durata 113 minuti.


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