(“Tutto il mondo è un palcoscenico… uomini e donne sono soltanto attori, i riflessi del teatro sulla realtà in un posto sperduto dove nulla è quel che sembra, tra personaggi improbabili ma densi di esistenza, un film che ricompone il puzzle rimettendo al loro posto colpa, vendetta, riscatto e perdono”. Motivazione del Globo d’Oro come Miglior Film 2017)
di Silvia Chessa
In una Sardegna onirica ed ancestrale, scenario ideale per un moderno dramma shakespeariano trasposto e calato negli accenti napoletani e nello stile della Commedia dell’Arte, di Eduardo De Filippo, Gianfranco Cabiddu allestisce questa “drammatica” commedia, semplice e compatta come un atto unico, ed unica anche per echi letterari e per respiro poetico.
L’esordio avvince, chiara citazione della Tempesta di Shakespeare, col naufragio in un mare furioso ed epico della nave che soccombe ed affonda; sopravvive solo un gruppetto di camorristi detenuti, due guardie ed una piccola compagnia teatrale sopra una terra di insolito fascino ed arcaiche inquietudini..
Il talento di Sergio Rubini, nel ruolo di Oreste Campese, capocomico, ha il corpo agile e flessuoso dell’attore e l’espressività facciale che cerca di ricalcare, ruga per ruga, quella indimenticabile eterna di Eduardo De Filippo.. conducendoci per mano attraverso i vari temi ed ogni sfumatura di questo affresco cineteatrale.
Prima di tutto, il tema della libertà, che basterebbe la meravigliosa fotografia a rappresentare: laddove, ad esempio, il filo spinato del carcere, si staglia preciso fra mari cristallini, verde brillante e cieli limpidi dell’Asinara, di una bellezza quasi provocatoria per chi non può afferrarla, da recluso, o goderne appieno, ostaggio, come Miranda, di un eccesso di protezione ..
E quest’ultimo tema si allaccia a quello della prigionia come risvolto di una condizione amorosa: il superbo Ennio Fantastichini, nel ruolo del Direttore del carcere, De Caro, commette l’errore di voler appunto tenere reclusa in casa la sua figlia adolescente Miranda (omonima, non per caso, della Miranda della Tempesta, vittima dello stesso lusso in cui è vissuta ma anche della sua empatia verso i marinai e le loro sofferenze), errore che il Direttore ha invero già commesso con la madre di Miranda (errore dunque recidivo, ovvero affetto da circolarità, come il perimetro di un’isola).
De Caro è uomo di cultura e pur parlando con sapienza di teatro, è primitivo, poi, nella gestione dei rapporti familiari, e paga, alla fine, il suo sbaglio perché, per paradosso, induce Miranda alla fuga, nascosta nel magico baule dei teatranti, col suo innamorato evaso.
E così prendono il largo, assieme ai teatranti e ai due giovani innamorati, le illusioni paterne (e non solo quelle di De Caro) di voler tenere isolata, ostaggio di un eccessivo protettivismo amoroso, la bella Miranda, su quell’isola che già Oreste Campese ha definito come una prigione a cielo aperto, nel confronto a due col direttore, in un passaggio chiave, emblematico per tutto l’intreccio.
Rimangono impressi, ed impressionanti, gli scenari di questa isola-carcere vista con occhi particolari e a noi restituita nei caratteri di una luce enigmatica, sfuggente e devastante.
La lingua astrusa unitamente all’aspetto carontesco del pastore che incarna Calebano, che catturerà, da solo (prodigio di forza) e terrà recluse le due guardie (dando loro occasione di vivere una esperienza parallela di ostaggi, fra altre storie di ostaggi), ci aggredisce e ci spaventa come una ulteriore Tempesta di suoni aspri e intraducibili, simbolo di una inaccessibilità più vasta e generale, e di una bellezza, quella dell’Asinara, altera ed antica e che qui si conserva intatta attaccandosi vieppiù alle sue matrici ataviche ed ai suoi codici orali medievali : vedi la sussistenza del baratto, antica forma di scambio, della caciotta al posto dell’acquavite, o filu’e ferru’, l’acqua che arde..
L’enormemente bello si intreccia allo spaventoso, il monstrum è davvero, come da suo etimo latino, prodigio che incanta e che atterrisce, per deformità, o difformità dalla norma, che altro poi non è che un principio di evasione dalle varie servitù, militari e non, .. e allora davvero si fa centrale la domanda del capocomico Oreste al Direttore De Caro (“Cosa temete? Se già l’isola è una prigione in sé..”) che puntella quei concetti di bellezza smisurata, di mitologie antiche, di naufragi, odissee, catture amorose di sirene, ..e tutto il variegato immaginario che abbiamo nella nostra mappa genetica e culturale mediterranea, e che mette alla prova la resistenza, ai naufragi, della stoffa dei nostri sogni. Stoffa decomponibile, e tanto più attraente, in quanto si compone di mascheramenti, evasioni, ardimenti, disvelamenti dei propri errori, di speranze e di perdoni.
LA STOFFA DEI SOGNI di Gianfranco Cabiddu. Con Sergio Rubini, Ennio Fantastichini, Alba Gaïa Kraghede Bellugi, Renato Carpentieri.
Soggetto :Eduardo De Filippo, Gianfranco Cabiddu. Sceneggiatura :Gianfranco Cabiddu, Ugo Chiti, Salvatore De Mola. Fotografia: Vincenzo Carpineta. Montaggio:Alessio Doglione. Musiche: Franco Piersanti. Scenografia: Livia Borgognoni. Costumi: Beatrice Giannini, Elisabetta Antico.
Italia, Francia 2015. Durata 101 min.
franca melis said,
Luglio 30, 2017 @ 20:08Bella e coinvolgente la pagina che Silvia Chessa ci regala nel recensire l’opera di Gianfranco Cabiddu. Lo scritto incanta per la freschezza, per la fluidità narrativa, per l’eleganza compositiva, per la coloritura delle immagini.L’ordito,tessuto con magistrale bravura, attraversa l’intero quadro filmico e i fili che sceglie per tessere la sua pagina stagliano una figurazione dell’opera filmica ancor più densa di malia e stupore.