Nel romanzo noir “Ho fatto giardino” di Andrea G. Pinketts si può leggere questo commento: “Pensa a Pasquale Festa Campanile, snobbato dalla critica cinematografica senza mai essere rivalutato come Totò”.
In effetti il regista (e scrittore) di origini lucane, di cui il 25 febbraio ricorre il trentennale della morte, fu maciullato oltremisura da una critica che associava il suo cinema ad una lunga serie di commedie scollacciate tipo “Il merlo maschio”, “Il petomane”, “Bingo Bongo”.
Pochi era quelli dediti a ricordare che Festa Campanile veniva dalla gavetta e aveva lavorato alla sceneggiatura di pellicole come “Gli innamorati” (1956) di Bolognini, , “Rocco e suoi fratelli” (1960) e “Il gattopardo” (1963) e “Le quattro giornate di Napoli(1964) di Loy.
Agli inizi degli anni sessanta passò dietro la macchina da presa e, con l’inseparabile Masssimo Franciosa, girò due film che andrebbero riscoperti: “Le voci bianche” (1964), ritratto colorato e spregiudicato della nobiltà della Roma del settecento con un effervescente e disinvolto Paolo Ferrari. Un anno dopo “Le voci bianche”, ispirato all’omonimo romanzo di Vasco Pratolini, portò nelle sale “La costanza della ragione” , con Catherine Denueve poco più che ventenne e al suo primo film italiano e Samy Frey nel ruolo principale di un giovane idealista, le cui progressiste posizioni politiche andavano a stridere con quelle dominanti nella fabbrica fiorentina in cui avrebbe voluto lavorare.
Ben diverso fu il trattamento che ebbe dalla critica il Pasquale Festa Campanile scrittore. Dei suoi romanzi, di taglio popolare ed arricchiti da una scrittura godibile, si occuparono con entusiasmo, tra gli altri, Emilio Cecchi, Giuseppe Ungaretti , Carlo Bo, Goffredo Bellonci, Geno Pampaloni.
Nel 1957 uscì il primo e riuscito lavoro, “La nonna Sabella “, vincitore del Premio Corrado Alvaro e di cui Dino Risi firmerà una sciatta trasposizione cinematografica. Ambientato in Lucania e lungo un tempo che va dall’Unità d’Italia alla seconda guerra mondiale, Festa Campanile portò a termine un affresco della sua famiglia tutto accentrato intorno ad una nonna capricciosa e tirannica che prevaleva in tutto sul marito idealista, vicino ai contadini e tra gli artefici della nascita del movimento socialista lucano.
Con “La strega innamorata”, uscito un anno prima della morte, si collocò definitivamente in una posizione di rilievo nel panorama della letteratura italiana, dimostrando sul piano estetico – con la storia di una giovane ed ammaliante figliola che aspira a diventare una cortigiana nella Roma seicentesca di Urbano VIII – “quanto sia vana la querelle su letteratura colta e letteratura di consumo: i buoni libri non pongono mai alcun limite di lettura”. Un discorso a parte meritano, inoltre, altri romanzi in cui lo scrittore-regista si riservò di approfondire la lettura evangelica lungo l’ osservatorio dell’amore, della missione, del pentimento, della famiglia.
Lo farà prima con lo scanzonato “Il ladrone” che avrà pure una versione per lo schermo da lui stessa diretta e con protagonista Enrico Montesano, proseguirà con il problematico “Il peccato”, dove un giovane parroco attraversa una crisi vocazionale e quando si ritroverà all’uscita del tunnel esistenziale in cui è finito ammetterà: “ho capito che sono davvero un sacerdote. Forse avevo bisogno di staccarmi dalla mia missione, per metterla in dubbio, per potervi tornare poi come da un esilio”.
Infine, con “Per amore solo per amore”, vincitore del Premio Campiello nel 1984 e che ispirerà anni dopo l’omonimo film di Giovanni Veronesi, Festa Campanile, sempre sostenuto da una scrittura freschissima e godibile, narrerà l’amore di Giuseppe per Maria, un trasporto che diverrà ancora più forte e delicato di fronte al concepimento non naturale del Cristo (“il parto più difficile da comprendere nella storia dell’umanità”).
Nato a Melfi nel 1927, Pasquale Festa Campanile se ne andò dalla sua terra che aveva nove anni per raggiungere i genitori a Roma, ma il distacco dai luoghi d’origine non fu mai definitivo. Pasqualino, come lo chiamavano chi lo conosceva, tornava volentieri nella casa di famiglia vicino al castello normanno. Come ricordò in un articolo su “Avvenire” un suo illustre concittadino ed amico, lo scrittore Raffaele Nigro, girava d’estate per la strade di Melfi vestito di lino bianco con panama in testa ed accompagnato sempre da note attrici. Ci stava bene tra i suoi compaesani Pasqualino, a loro riconosceva la pulizia, il pudore dei sentimenti e scriveva: ” i potentini sono gente antica, a lungo rimasta isolata in una terra meridionale e interna. Non sono affatto sorpreso che risultino i più sereni d’Italia”.
da Il Quotidiano del Sud