Per reconditi misteri distributivi, Ex machina esce in sordina nelle sale estive semideserte. Si tratta di un film molto interessante, presentato quasi come un B movie di fantascienza, di cui conserva alcuni stereotipi, che è invece un trattatello di teoria della mente, aggiornata all’epoca dei motori di ricerca planetari.
La storia riparte esattamente laddove finiva quella di Blade Runner, vale a dire dalla questione della possibilità di sapere se un “androide”, qui ribattezzato IA da Intelligenza Artificiale, possa provare autocoscienza, empatia e possa animarsi di volontà e motivazioni proprie e soffrire per la propria natura mortale: questo film va oltre perché si interroga sul fatto se un’IA non solo possa scambiarsi, confondersi e rivaleggiare con un essere umano fatto di carne e sangue, ma addirittura essere più intelligente e quindi più adatto alla . La bellissima IA, Ava, ha un fascino inquietante molto simile, anche se più robotico, a quello della Rachel di cui s’innamorava a suo tempo Dick (Harrison Ford), il cacciatore di androidi. Qui è un giovane geniale programmatore ad essere il valutatore della di lei “umanità”, attraverso una sorta di riproposizione vis a vis del test di Turing. Il creatore di queste IA, collocato in un elegantissimo e sofisticato bunker tra le montagne della Norvegia è Nathan, una riproposizione in chiave postmoderna delle figure prometeiche del cinema di sempre, a partire dal Dr. Mabuse a Frankenstein, fino al Christof di The Truman’s show. Nel corso del film si scoprirà che i suoi replicanti sono tutte creature femminili dotate di un indiscusso e ambiguo erotismo, programmate a suo piacimento, e di cui lui crede di poter disporre per sempre.
Su questo plot elementare, interpretato in spazi estremamente claustrofobici da quattro attori, tra i quali eccellono a mio parere soprattutto le due donne, interpretate da Alicia Vikander e Sonoya Mizuno, Alex Garland, autore e regista, già sceneggiatore di The Beach, Sunshine e 28 giorni dopo di Danny Boyle, dà prova di una grande finezza e conoscenza delle implicazioni tecniche e etiche della intelligenza artificiale, in scambi di battute e creazioni di situazioni-test, ciascuna delle quali meriterebbe una lunga discussione.
Diciamo solo che le tesi sostenute dal film sono che le IA potranno non solo diventare a breve totalmente umane, ma superare, e quindi ingannare e manipolare, gli esseri umani e, come corollario etico, che in ultima analisi tutte le facoltà superiori della mente sono finalizzate al controllo e al dominio dell’altro, secondo una visione tutta inglese che ha le radici nell’homo homini lupus di Thomas Hobbes e, successivamente, nel darwinismo sociale. E’ questa impossibilità di realizzare rapporti interumani realmente autentici e cooperativi, questa diffidenza ontologica, che a tratti richiama atmosfere paranoidi alla Hitchcock, l’ultima chiave di lettura del film, devo dire molto adatta a rappresentare i nostri tempi.
Il titolo del film è in realtà un gioco di parole, nel quale il significato latino tradizionale è sostituito verosimilmente dal significato di superamento dello status di macchina da parte degli androidi.
Vanno segnalati infine la magnifica ambientazione naturalistica e soprattutto gli splendidi effetti speciali che, già sperimentati nell’irrisolto Under the skin di Jonathan Glazer, consentono di sovrapporre la pelle vellutata delle attrici sulle strutture elettrometalliche sottostanti, con effetti perturbanti e stupefacenti.
con Domnhall Gleeson, Oscar Isaac, Alicia Vikander, Sonoya Mizuno.
USA, G.B 2014. Dur. 108 min.