Amy Winehouse era inventiva e volitiva, diretta e umile, carismatica e seducente, con una grande ambizione: cantare esprimendo se stessa, essendo riconosciuta e apprezzata per quello che era.
Questo è il ritratto che il film ci mostra attraverso materiale di repertorio privato e pubblico insieme alla sua straordinaria voce e alle ferite profonde che l’hanno portata a soli 27 anni a morire per arresto cardiaco, consumata nel corpo dall’eccesso di alcool e droga.
La prima ferita: il mancato rapporto con il padre che, divorziando dalla madre, ha abbandonato al suo destino anche lei, bambina ipersensibile.
Conseguenza: la ricerca spasmodica di un amore simbiotico, in cui totalmente identificarsi, che trova in Blake Fielder, più fragile di quanto lei fosse, moralmente ambiguo (come sarà anche il padre), con tendenze autodistruttive, che Amy, per questa sua necessità simbiotica, farà sue.
Su questa fragilità psicologia si innesta la ferocia dei mezzi di comunicazione che, nello stesso modo superficiale in cui l’avevano resa celebre, altrettanto superficialmente contribuiranno a distruggerla.
E infatti le immagini più atroci del film, forse ancora di più del volto devastato nel momento degli eccessi di droghe, sono quel turbinio impietoso di flash di paparazzi che ossessivamente la seguono e che la riducono nell’immagine ad uno zombie, che cammina a scatti come un robot, senza più identità di persona e di donna.
Il culmine della sofferenza sarà l’ultimo concerto di Belgrado, in cui si presenta sul palco davanti ad un’enorme folla esaltata ed urlante con l’unica possibilità di rivolta (impotente) che sentiva di avere, presentandosi ubriaca. La rivolta contro quel ruolo e quelle canzoni.
Amy Winehouse aveva capito e stava maturando una svolta: passare dal pop al jazz; e da un ruolo che non gli apparteneva e che non sosteneva psicologicamente di star di grandiosi concerti a quello di artista per un pubblico più raccolto e motivato. Più di ogni altro sembra capirla un grande del jazz come Tony Bennet, che spende le lodi più alte per Amy, “ un talento del calibro di Ella Fitzgerald e Billie Holiday”. Il loro incontro canoro, lei timida che si giustifica e lui sicuro, che la incoraggia e la gratifica fino ad un lungo abbraccio, è una delle sequenze più poetiche del film, perché è abbraccio dei sentimenti, non della convenzione.
Asif Kapadia ha realizzato, quindi, un film doc impietoso e generoso, molto efficace, perché ha intrecciato alla vitalità creativa, alla unicità della voce, ai traumi profondi e alle loro possibili radici di Amy Winehouse, la ferocia apparentemente normale e spietata dell’industria dello spettacolo, seguendo un ordine cronologico punteggiato da date e luoghi, affidandosi a immagini di repertorio, lasciando laddove era necessaria la parola, ma inserendola fuori campo.
AMY – THE GIRL BEHIND THE NAME
di Asif Kapadia.
con Amy Winehouse, Yasiin Bey, Mark Ronson, Tony Bennett, Pete Doherty.
Gran Bretagna 2015. Durata 90 minuti.