“Ma Silvia ha le chiome nere” di Nino Muzzi

leopSilvia ha le chiome nere e presumibilmente anche gli occhi neri, di cui Leopardi dice che erano ridenti e fuggitivi e poi innamorati e schivi. E niente induce a pensare che Silvia abbia i capelli mesciati in biondo e rossiccio e gli occhi chiari.

Martone invece parte proprio di lì, quando ce la presenta nel suo Il giovane favoloso, dove la ragazza si affaccia alla finestra e il poeta la vede. Ma non fu così, infatti d’in su i veroni del paterno ostello, il poeta, usando uno zeugma, sente la voce e la man veloce. Quindi è l’udito che viene colpito innanzitutto, è un’eco di Silvia che si diffonde per le quiete stanze e giunge agli orecchi del giovane Conte.

Io sostengo che la presentazione fattane da Leopardi è “cinematograficamente” più efficace di quella di Martone.

E poi c’è la potenza del ricordo che lo assale a Pisa, dove il clima della città gli fa rinascere l’impegno poetico, e proprio là compone A Silvia. Anche questa del ricordo è stata un’occasione mancata per il film che invece indugia inefficacemente sulla vicenda della morte e del trasporto della ragazza, mostrando scene poco più che di genere.

Questo esempio dimostra come il regista abbia cercato Leopardi soprattutto negli esterni o meglio nell’esteriorità. Che la biblioteca di casa Leopardi sia quella autentica poco serve all’efficacia delle scene che vi si svolgono, che Fanny venga mostrata in villa o nel decoro di un interno nobiliare poco aiuta a capire come mai Leopardi ne trasse il ciclo di Aspasia.

La vita e l’opera di Leopardi si sarebbero prestate egregiamente ad una trascrizione filmica se e solo se Martone avesse capito che la vita e l’opera del poeta si sono svolte percorrendo una scalinata in salita da cui non si può scendere, non si può tornare indietro, una scalinata che dà quasi l’assalto al cielo. Quindi Leopardi è tanto più eroico quanto più il suo fisico si va accasciando, eroico contro le fole del mondo e del creato.

Se avesse seguito questo filone anche il bravo Elio Germano avrebbe incontrato interiormente Leopardi, e invece lo cerca per tutto il film inseguendolo solo nella  decadenza fisica.

Il Leopardi di Martone è tutto e subito Leopardi, non è un Leopardi in divenire. È per questo che via via il suo pessimismo annoia lo spettatore, e sembra quasi dar ragione al letterato del Gabinetto Viesseux che dice di lui: scrive bene, ma dice sempre le stesse cose. Questa sensazione fra il pubblico si fa sempre più strisciante mano a mano che si procede nella visione del film.

Questo Leopardi uguale a se stesso e impolitico non convince.

E poi c’è quell’eccessiva apertura sulla figura di Ranieri, che, se dalla critica letteraria non fu particolarmente apprezzato per il suoi Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, nel film viene invece quasi esaltato e diventa una chiave interpretativa del poeta.

Troppo spazio anche per Napoli. Qui bisogna dire che nell’immaginario cinematografico l’atmosfera partenopea svolge una potente attrazione, anche Pasolini trasferì Boccaccio in ambiente napoletano. Napoli è un residuo di classicità perduta, una classicità che non si trova nelle museali pietre antiche di Roma, che resta invece una città papalina, ma che si cerca nella popolazione, nella sua arcaicità, nella sua mistericità. In quegli antri da culto di Mitra che Leopardi percorre in cerca di piacere c’è tutto il desiderio del regista di affondare di nuovo in quella cultura tardoimperiale che con Leopardi ha ben poco a che vedere.

Comunque il film è visibile e anche bello, come prova d’attore.


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