La laurea presa al Politecnico di Milano la mise subito da parte. Ma degli studi di architettura Alberto Lattuada conservò l’attrazione per l’arte e un forte senso verso la prospettiva. Prima di trasferirsi a Roma diede vita con Luigi Comencini alla Cineteca Italiana e fece parte del gruppo milanese che fondò Corrente, una rivista in cui svolse il lavoro di critico cinematografico.
Nato il 14 novembre di cento anni fa e morto ad Orvieto nel 2005, Lattuada, dopo aver esordito con Giacomo l’idealista (1942), fu coi film Il bandito (1946) e Senza pietà (1948 ) tra i principali interpreti del filone neorealista.
Alberto Lattuada con gli anni divenne il regista italiano che meglio seppe sfruttare “canoni e suggestioni figurative del cinema hollywoodiano”. E a parte le coinvolgenti storie che ci ha regalato, spesso tratte da capolavori letterari, viene ricordato ancora oggi come il regista dall’occhio acuto, attento nel valorizzare il talento attoriale della donna, si pensi ad attrici del calibro di Carla Del Poggio (che divenne poi sua moglie), Giuletta Masina, Catherine Spark, Silvana Mangano, Yvonne Sanson, Dalila Di Lazzaro.
Lattuada, inoltre, fece parte di quella schiera di registi-autori (Lizzani, De Santis, De Sica, Antonioni…) impegnati anche fuori dal set e non sempre ben visti dalla nomenclatura del cinema nazionale, il suo nome comparve tra i firmatari del manifesto contro la censura e per la difesa della cinematografia italiana.
Ha consegnato alla storia il regista milanese titoli indimenticabili: da La spiaggia (1953) a I dolci inganni (1960), da Mafioso (1962) a Don Giovanni di Sicilia (1966) , da Venga a prendere il caffé da noi (1970) a Oh, Serafina, La cicala (1980).
Inoltre, ci sono due film da lui realizzati che ebbero a che fare con la Basilicata: il primo Il cappotto (1952) -, tratto dal capolavoro letterario di Gogol e con un grande Renato Rascel nei panni di un umile scrivano che spera in un avanzamento di carriera ed è vittima del furto del suo nuovissimo soprabito – venne sceneggiato oltre dallo stesso regista e Cesare Zavattini, da Luigi Malerba (ancora non scrittore di successo), Enzo Currel, Giordano Corsi, Gianni Prosperi e dal poeta-ingegnere di Montemurro Leonardo Sinisgalli, il quale negli anni cinquanta fu molto vicino agli ambienti cinematografici della Capitale.
L’altro film è La lupa(1953) ispirato all’omonima novella di Giovanni Verga e che Lattuada girò nella Matera “degradata” del tempo . “Per mesi interi ho vissuto a Matera – dirà in un’intervista il regista – per fare un film che non c’entra niente con Matera”. La critica seppe riconosce a Lattuada il felice intuito di adattare il racconto in un ambiente originale ed intimo. Nel salto dal libro alla pellicola il verismo di Giovanni Verga si trasforma in una predisposizione formale, invece la fluente e selvaggia sensualità della protagonista (l’attrice algerina Kerima) diventa pretesto per rappresentare una serie di quadri di fuoco in cui la passione, i fatti, vanno a braccetto con il paesaggio scarno dei Sassi e con la povertà della popolazione (tante furono le gente del posto che fecero la comparse).
Sul numero 22 del novembre 1953 della rivista Cinema Nuovo è riportato: “La trasposizione della azione dalla Sicilia a Matera ha offerto al regista una scenografia di indiscutibile risalto”, mentre sulla monografia di Lattuada de Il Castoro, Claudio Camerini scrive “Il corpo splendido della Lupa è la lingua stessa del film, è la forma concreta e tangibile che attraversa la storia. Il ballo della Lupa-Kerima per sedurre il suo uomo, la fuga della donna su per i Sassi seguita da Nanni (Ettore Manni) e la notte da amore sono rappresentati senza dialoghi unicamente tramite il movimento e l’evidenza plastica dei corpi che occupano la spazio dell’inquadratura….”. In sostanza, da questo punto di vista il film predispone Lattuada a focalizzare il suo sguardo sulla sensualità della donna, sulla torbida ed intrigante carnalità dell’attrice protagonista, sull’ arcaica forza selvaggia della Lupa-Kerima.