Ha ragione Stefania Parigi, docente di cinema all’Università di Roma tre, quando nella premessa al suo nuovo saggio Neorealismo: il nuovo cinema del dopoguerra, uscito in questo anno per la Marsilio, ammette che “c’è un gigante addormentato nel cinema, a tratti si risveglia provocando acute grida, che si levano come scontati ritornelli: la sua pelle è sempre piena di “nei”, le sue viscere sono antiche e attuali. Quando succede – o sembra che succeda – qualcosa di nuovo nel nostro cinema non si manca mai di fare il suo nome: neorealismo”. Appunto.
A sessant’anni dal suo insorgere ritornare sul tema del neorealismo vuol dire – come attesta la stessa Parigi – “scavare” nella storia, nella psicologia, nell’identità del cinema italiano e, aggiungiamo noi, nel modello di immagini e storie da cui si sviluppò nel dopoguerra il cinema moderno.
Preceduto tra il 1939 e il 1944 da un intenso dibattito sulle riviste del settore, il neorealismo di certo non fu un movimento né una corrente cinematografica con un suo documento programmatico e di intenti, ciascuno dei suoi principali interpreti – Visconti, Rossellini, De Sica, Zavattini , Germi, De Santis, Lizzani – furono “autori a sé”, ciascuno con una propria personalità e con una forte autonomia creativa.
Il padre fondatore dei “Cahiers du cinema” Andrè Bazin definì il neorealismo “il cinema dei fatti”, che si distinse dalle estetiche filmiche precedenti nonché per un diverso atteggiamento della cinepresa nei confronti della realtà che viene osservata senza pre-convinzioni né pregiudizi, che viene rispettata e preservata sia in termini di contenuto sia nella sua essenza e unità ontologica, con la rinuncia a interventi scenografici falsificanti e al montaggio classico.
“Le immagini del neorealismo – scrive nel suo libro Stefania Parigi – sono contemporaneamente quelle impresse nei film del dopoguerra, quelle costruite dai discorsi dei critici e dei teorici, quelle che sono rimaste nella memoria collettiva e che tornano, con la loro aura di inattualità a incidere su molte esperienze di riconquista cinematografica di un’identità antropologica ed estetica”.
E’ superfluo citare i titoli che principalmente marcarono il “cinema dei fatti” come “Roma città aperta”, “Paisà”, “Germania anno zero” di Roberto Rossellini, “Ladri di biciclette”, “Sciuscià”, “Umberto D”, “Miracolo a Milano” di Vittorio De Sica, “Riso amaro” di Giuseppe De Santis, ma ebbene ricordare che oggi il neorealismo è quello spartiacque cruciale nella storia del cinema mondiale, un indirizzo estetico che ha cambiato il modo di intendere e fare cinema.
Inoltre, è vero quello che sostiene Stefania Parigi che “nel momento da più parti si decreta la fine del postmoderno e si ricomincia a parlare del New Realism, in sede letteraria come in sede filosofica, misurarsi con il vecchio spettro del neorealismo cinematografico comporta anche, necessariamente, porsi delle domande sul concetto usurato e mobile di realismo, sulla natura dell’immagine e del suo rapporto con il mondo sensibile”.
Stefania Parigi. “Neorealismo: il nuovo cinema del dopoguerra”. Marsilio editore