Al teatro On\Off di via mac Mahon a Milano è andata in scena per una settimana una libera trasposizione del testo letterariamente più ambizioso e creativo di J.G.Ballard, cioè la raccolta di sardonici miniracconti surrealisti tardomoderni, ma profeticamente post-moderni, parzialmente articolati tra di loro, popolati di cifrati indizi autobiografici e di una serie infinita di osservazioni sociologiche ed estetiche mai banali, uscita col titolo di “The atrocity exhibition“. Secondo la poetica dell’Inner Space, corrente fondata da Ballard nel fermento avanguardistico anglosassone anni ’60, nella mente di un molteplice personaggio maschile, Traven/Travis/Trabert/Talbot/Tallis, attorniato da molteplici quando anonime figure femminili (Signora Travis, Catherine Austen, Karen Novotny etc.), le immagini filtrate dai media dei principali avvenimenti della storia americana e non solo dagli anni ’40 alla fine dei ’60 (dal lancio delle bombe atomiche all’assassinio dei Kennedy, passando per i campi di concentramento, il Vietnam, le morti automobilistiche di Jayne Mansfield e James Dean e la morte “morbida” di Marilyn Monroe) si mescolano agli avvenimenti privati nel contesto di un non ben definito ospedale neuropsichiatrico.
Come scrisse magistralmente Antonio Caronia, che a suo tempo ha mirabilmente curato l’edizione italiana del testo ballardiano, ed a cui la compagnia dedica un ricordo affettuoso facendogli citare in video una frase della presentazione di Burroughs, “questa scrittura (…) pare un nastro di Moebius e ci fa passare dalla psiche alla storia senza che ci accorgiamo di aver cambiato faccia della superficie”.
Si tratta, in fondo, dell’assunto base di ogni letteratura surrealista, cui qui si aggiungono sfumature joyciane per il prevalere nel testo “automatico” degli aspetti sensopercettivi immediati, soprattutto visivi, con i loro problematici riflessi nella dimensione emotiva e affettiva del protagonista. “The atrocity exhibition“, come molta altra produzione “pseudofantascientifica” di Ballard, è un testo profetico sotto molti aspetti e, con lo sguardo di oggi, si può dire che la mente di Tra ven/Travis/Trabert/Talbot anticipa quella che è divenuta la mente connessa perennemente al web di molti di noi e, soprattutto, quella dei nostri figli, prima generazione fenotipicamente pura della mutazione neurale cui ripetutamente ha alluso decenni addietro lo scrittore inglese.
Se il cinema, per il suo potere di ricreare universi plurisensoriali nei quali si fondono i mondi interiori ed esteriori (anzi a ben vedere nel cinema questo accade sempre, perchè è parte integrante dell’esperienza della visione), ha potuto affrontare più volte con un discreto successo i testi ballardiani (la prima volta con l’algido e plumbeo capolavoro del canadese Cronenberg, “Crash”), e lo stesso “The atrocity exhibition” è stato trasposto nel 2001 dall’americano Jonathan Weiss, l’impresa di trasportarlo sulle tavole di un palcoscenico ha richiesto notevoli dosi di coraggio e creatività, se non di incoscienza.
L’impianto scenico scelto da Giuseppe Isgro’ con la collaborazione di Francesca Marianna e di Antonio Caronia, nell’ultimo periodo della sua vita, prevede due corpi-voci attoriali, i bravissimi Andrea Berrettoni e Francesca Frigoli (a quest’ultima va una particolare menzione per la straordinaria presenza scenica), accompagnati da una ininterrotta, stridente colonna sonora che riecheggia quella di Howard Shore per Crash (chitarre suonate a mano e ad arco da una magica Alessandra Novaga), sotto luci quasi perennemente rosse e con uno schermo su cui scorrono, a mo’ di basso continuo, nebulose immagini perlopiù pornografiche.
Gli attori recitano alle lettera frammenti di “The atrocity…”, senza fare alcuna distinzione tra la narrazione e le note aggiunte da Ballard nell’edizione americana del ’90. Queste ultime, necessarie per rendere comprensibili molti riferimenti, spesso misteriosamente seppelliti nella storia americana degli anni quaranta-sessanta e nelle vicende personali di Ballard, trasformano il libro in una parodia scientifica, una forma peraltro già evidente nel testo base per l’uso continuo, come guida concettuale, di termini anatomo-fisiologici e “neuroscientifici”, come si direbbe oggi. Le vicende narrate dai frammenti titolati che compongono i vari capitoli sembrano del resto ambientate in un misterioso ambiente medico-psichiatrico nel quale le prime atrocità esposte sono i dipinti dei pazienti, e nel quale imperversano infermiere e medici, soprattutto lo psichiatra Dr.Nathan. Bisogna ricordare che Ballard è stato studente di medicina, prima di optare per la letteratura.
Nella sua scelta dei testi Isgrò predilige i principali passi legati al celebre assunto ballardiano che “la scienza è l’ultimo stadio della pornografia, un’attività analitica il cui scopo principale è quello di isolare gli oggetti o gli eventi dal loro contesto spaziale e temporale”.
In questo senso l’ampio uso della pornografia si fa metafora di un modo di essere dell’uomo post-moderno, scomposto nella sua identità non solo dalla molteplicità ma anche dalla frammentazione degli elementi costitutivi del proprio corpo sessuato. I due attori sono così costretti ad un lavoro sul proprio stesso corpo, disarticolato, straniato, ridotto a marionetta meccanica, in ogni caso autonomo rispetto alla globalita’ della esperienza soggettiva, che in Ballard non si identifica con quella “interiore”.
Sul palcoscenico come nel testo il centro dello spettacolo è l’elencazione delle componenti del “kit del sesso” nominato Karen Novotny, costruito da Talbert, come surrogato di corpo femminile ricomponibile a piacimento per svolgere ogni sorta di immaginario atto sessuale con donne feticizzate e ricomponibili a piacimento: “1) batuffolo di pelo pubico 2) una maschera da viso di latex 3) sei bocche staccabili 4) un insieme di sorrisi 5) una coppia di seni, col capezzolo sinistro segnato da una piccola ulcera (…)” . (Sarebbe interessante oggi riscrivere l’elenco in versione femminile!)
Restano invece sullo sfondo altre ossessioni degli universi ballardiani, come quelle dei corpi frantumati negli incidenti stradali e quelli martorizzati dagli eventi bellici, la rivisitazione ossessiva dell’omicidio di J.F. Kennedy e, soprattutto, non emerge bene dalla messa in scena, il nesso profondo che questo mondo frantumato dalle distruzioni, dalle oscenità e dai processi mediatici di iconizzazione delle celebrità morte precocemente in modo violento, produce nelle menti dei malati che come un coro circondano Traven… e sulla mente di Traven stesso: quel nesso benefico postulato da Ballard tra l’immaginazione di una sessualità non convenzionale, attivata dagli eventi traumatici, dagli spazi architettonici, dagli apparati feticistici, e la “morte dell’affetto, la scomparsa della sensibilità”. “Travers, per esempio, ” – commenta con la solita lucidità il dr. Nathan- “ha creato tutta una serie di nuove deviazioni sessuali di carattere completamente concettuale, proprio per tentare di superare questa morte dell’affetto. Per certi versi lui è il primo dei nuovi naif, il doganiere Rousseau delle perversioni sessuali.”
Se qualcosa si può rimproverare a questa temeraria e virtuosistica trasposizione teatrale è quindi la rinuncia alla dialettica tra creatività letteraria e scientifico- rimuginativa di Ballard, che dà forma al suo immaginario impedendogli, come talora avviene in scena, di perdersi in un caos puramente enunciativo e declamativo.
Ma si tratta forse solo della percezione soggettiva di chi scrive, che di professione fa il medico, e, come il dr. Nathan del testo, ha sempre la necessita’ di essere rassicurato da modelli razionali e interpretativi.
Note per un collasso mentale
Una partitura per voci, corpi, chitarra, live electronics e altro liberamente ispirato all’opera di J.G.Ballard
Phoebe Zeitgeist
Teatro Regia, drammaturgia, luci, scena Giuseppe Isgro’ con Andrea Berrettoni (voce, corpo, organetto) Francesca Frigoli (voce, corpo, flauto traverso) Alessandra Novaga (chitarre