Già fare un film su Hannah Arendt… può essere un merito?
Sì lo è. Ci sono protagonisti nella storia del ‘900, che hanno lasciato una memoria ( scritti, visioni, fatti), che non va perduta, perché continua a riguardare il nostro presente. Uno di questi è Hannah Arendt, filosofa ebrea scampata allo sterminio. E Margarethe Von Trotta ha avuto il merito di avercene restituito un ritratto vivo e complesso.
In che modo?
Ha rappresentato, infatti, un’intellettuale, che ricerca, su una tragedia storica, la verità, traendone riflessioni controcorrente che, in ultima analisi, ci riguardano tutti. Infatti, come è noto, il New Yorker chiese, nel 1961, ad Hannah Arendt, di seguire, a Gerusalemme, il processo a Adolf Eichmann, gerarca nazista meticoloso organizzatore dei trasporti dei deportati verso i campi di sterminio . La tesi che Eichmann non era un mostro, ma soltanto un grigio burocrate, che obbedì a ordini e leggi senza porsi questioni etiche, provocò una reazione durissima contro la Arendt, perché pareva giustificare il gerarca nazista e soprattutto poneva la possibilità che tutti possiamo diventare dei “mostri”. Inoltre, in questi articoli, che diventeranno poi il famoso libro La banalità del male”, la Arendt denuncia, sulla base di testimonianze, la cooperazione di alcuni capi ebrei alla deportazione.
Ma queste idee Margarethe Von Trotta riesce a farle filtrare nel film?
Sì, efficacemente. Hannah Arendt è, nel suo nucleo più profondo, un film di idee, di conflitti di idee, che diventano cinematograficamente, in campi-controcampi, drammatiche. La filosofa non si scontra soltanto con la lobby ebrea, che la infama pesantemente, ma anche con amici, a cui vuole molto bene.
E’ un film di idee, dunque?
No, è qualcosa di più di un film storico-filosofico, perché le idee si fondono con la personalità di Hannah Arendt.
Cioè?
Primo: sono frutto di documentazioni e riflessioni lunghe e sofferte; secondo: una volta precisate diventano inflessibili e combattive; terzo: sono il prodotto di una storia, l’amore, poi deluso, che intravediamo in brevi flash back, verso il suo maestro e amante Heidegger, il rapporto tenero e paritario con il marito, il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, il contatto dialettico e felice con gli studenti; infine, oltre le idee, ci sono i momenti di dubbio, di stanchezza e di solitudine.
Il punto più alto del film?
La lezione nell’aula magna dell’università, quasi un processo, in cui lei risponde agli attacchi canaglieschi della lobby ebraica con straordinaria veemenza, lucidità ed ars retorica. Una grande pagina di cinema, recitata magnificamente da Barbara Sukowa, e montata felicemente. . Da segnalare anche il processo reso molto bene, perché mescola la realtà, le immagini vere dell’interrogatorio a Eichmann, con la finzione, le riprese create con Barbara Sukowa.
I limiti?
Volendo ricostruire una sequenza importante della vita di Hannah Arendt, la regista tedesca ha avuto bisogno di creare le premesse, che hanno un taglio pedagogico e descrittivo. Infatti il film tarda a decollare, penalizzato da una sceneggiatura didascalica con dialoghi forse troppo lunghi.
Hannah Arendt
Regia: Margarethe Von Trotta
Sceneggiatura: Pam Katz , Margarethe von Trotta
Cast: Barbara Sukowa, Janet Mcteer, Julia Jentsch
Fotografia: Caroline Champetier
Montaggio: Bettina Böhler
Costumi: Frauke Firl
Musiche: André Mergenthaler
Germania/Lussamburgo/Francia (2012). Durata: 113′