Reduci da un week-end sublimato dalla presenza a Lucca di un Maestro quale Peter Greenaway, è facile collegare la sua idea sull’anti –narratività ad un film come Holy Motors. Secondo Greenaway il cinema è morto (per l’esattezza il 31 Settembre 1983, con l’introduzione del telecomando), o quanto meno lo sono i codici standard che lo hanno retto per decenni, dei quali tutti i nuovi cineasti dovrebbero dimenticarsi per dar vita a nuove forme d’arte di cui il cinema ha potenziali ancora del tutto inesplorati.
Holy Motors è un film anarchico e visionario che brilla di luce propria e che celebra il Cinema, approdando sicuramente ad alcuni di questi nuovi territori, e come tale richiede un’analisi altrettanto anarchica, che vada oltre i canoni standard della critica.
Ho visto Holy Motors due volte. La prima, forse con aspettative contaminate dal fascino poetico e seduttivo delle opere precedenti (Les amants du Pont Noeuf e Mauvais sang), mi ha lasciata confusa, con un’indistinta sensazione tra la beffa e lo sconcerto per quello che sembrava la mera provocazione di un autore nei confronti di un pubblico di “analfabeti visivi” (confermata anche dall’immagine iniziale in cui lo stesso regista guarda un pubblico di spettatori dormienti). Digerito il primo istinto di non accogliere la provocazione ho iniziato a riflettere sugli intenti di Leos Carax, e ho deciso, a distanza di settimane, di riguardare il film una seconda volta. Indubbio che la provocazione esista, ma non è senz’altro il punto focale di quest’opera, che vuole essere anzitutto un’opera d’arte dalla forte estetica, che abbraccia più generi (dal cinema alla musica, dal teatro alla fotografia) e che può essere accolta in modo diverso a seconda del tipo di approccio. Nella mia seconda visione ho deciso pertanto di non avere alcun sguardo “critico”, ma di abbandonarmi liberamente a tutte le sensazioni che potesse trasmettermi. E sono state tante.
Ho capito, con questo tipo di visione, che Leos Carax ha voluto realizzare un’opera vergine, pura e incontaminata come lo sguardo di un bambino curioso e allo stesso tempo pregna di tutto il passato inevitabilmente intrinseco nel suo DNA. Entrando in Holy Motors si abbandona la sala (guardando anche noi stessi tra il pubblico addormentato) lasciandoci condurre in quelli che sono numerosi film, da un bravissimo Denis Lavant, attore centrale che entra in una limousine e ne esce trasformato, come dal cilindro di un mago, ogni volta in un nuovo personaggio (ne interpreta 11 differenti) tramite i quali attraversa i generi più disparati : dalla black comedy al fantasy, dal romanzo d’amore al grottesco, lasciando lo spettatore stranito e perplesso, ma senza dubbio affascinato dalla potenza evocativa delle immagini, dalla riuscita dell’invenzione, dall’ idea rivoluzionaria di cinema che prescinde da tempo e generi, senza denigrare però le radici di chi ha gettato le basi del cinema stesso, con numerosi riferimenti più o meno espliciti, da Maray a Godard fino agli stessi Fratelli Lumière. Trasportati dalla Limousine che a tratti sembra una macchina del tempo capace di entrare in dimensioni parallele, si assiste ad uno scardinamento del senso classico di un Film, che sorprende continuamente lo spettatore con illusioni di momenti riconoscibili che vengono continuamente ribaltati, come sul finire, quando più volte ci troviamo di fronte a quella che potrebbe sembrare la scena finale. Ma è solo un’illusione.
Tornando dunque alla provocazione di Greenaway citata inizialmente, non si può che vedere Holy Motors come un attualissimo punto di partenza per una riflessione sull’identità che assume oggi il cinema, e su quale/i nuove possibilità e sguardi esistano. Forse l’idea che tutto sia già stato visto, detto e fatto è da rivalutare.
Holy Motors
Regia e sceneggiatura: Leos Carax
Interpreti e personaggi: Denis Lavant, Edith Scob, Eva Mendes, Kylie Minogue,Michel Piccoli, Leos Carax. Francia 2012. Durata: 115 min