Che l’amore sia più forte della morte è un tema classico, anche se difficile da capire e da trattare. Tutte le volte che si presenta come tema di un film, vi si presta un’attenzione particolare. S’indagano i particolari, le immagine trattenute più a lungo, si cerca in certi dettagli un valore salvifico: si spera che ci salvino dalla morte, ne ritardino l’ineluttabilità.
Con questi sentimenti il pubblico entra in sala a vedere Amour di Haneke e lo guarda con grande attenzione, quasi con concentrazione (lo indaga col fiato sospeso) e alla fine si accorge, purtroppo, di essere caduto in una trappola voyeuristica e quasi necrofilica. Ne resta sconcertato, ma non osa parlarne male. Se ne torna a casa silenzioso, deluso dal mancato effetto catartico che si attende dall’opera d’arte.
E ha ragione! In effetti questo film non c’entra quasi niente con l’amore. Sarebbe stato meglio se il regista avesse insistito sulla musica, come elemento che concede una forma d’immortalità a chi l’ascolta e se ne lascia compenetrare. Ma, contrariamente alle attese, quello Schubert tanto amato non interviene nel film che con pochissime note. E tutto poi viene interrotto bruscamente, riportato crudelmente alla realtà che non è quella dell’Amour, ma quella della Mort.
Non è assente in questo un certo stile schnitzleriano, ma senza la poesia di Schnitzler, non è assente neppure la crudeltà di Polanski, ma senza lo sguardo politico, del geniale polacco.
La Morte in effetti è la subdola protagonista che si avanza inesorabilmente, non parliamo di malattia, non parliamo di medicina (il ruolo laico di Isabelle Huppert che cerca vie d’uscita), non parliamo di cure (operazioni chirurgiche andate male e medicine inefficaci). Tutto questo vien trattato con distrazione e fastidio: il regista s’identifica col protagonista maschile (un bravo Trintignant, ma poco convinto del ruolo che interpreta) che non spera in nessuna tregua. La morte avanza inesorabile, sembra dire, e lasciateci morire in pace!
Ma cosa avviene fra i due? A ben vedere viene negato (con l’ammutolimento della moglie) anche il minimo rapporto d’amore, che si riduce ad un amorevole rapporto di cura (che non c’entra niente con l’amore, semmai con l’affetto). Invece Haneke poteva, ricordando La pianista, sviluppare fra i due un amore autentico e rovente, attraverso la musica, magari solo la musica di Schubert.
Sarebbero stati presenti tutti gli elementi, primo fra tutti la loro capacità di mettere al mondo musicisti (non solo la figlia, ma anche tutti gli allievi passati dalle loro mani). Sarebbe stata la musica ad aprire spazi di vita e di giovinezza, come dighe contro l’onda inesorabile della morte.
E invece si è preferito questo crudele esercizio di voyeurismo che, rientra, ahimè, nel novero dei tanti manifesti (intesi in senso proprio e in senso metaforico) che fanno effetto sulla gente con le terribili immagini dell’anoressia e dell’AIDS o dei tanti film all’americana, con l’immancabile protagonista intubato in un letto di ospedale, ma che poi, in genere, si salva. In questa ricerca di spettacolarità vi si è aggiunto, qui, il disfacimento della vecchiaia, indagata ruga per ruga.
Sostituiamo dunque la parola Amour con la parola Mort e tutto diverrà più comprensibile.
Un film di Michael Haneke con Isabelle Huppert, Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Rita Blanco, Laurent Capelluto. durata 105 min. – Francia, Austria, Germania 2012. – Teodora Film