Dopo il lungo periodo di depressione, auto testimoniato con il one-man-band-film “Arirang”, di cui abbiamo già parlato su questo giornale, Kim Ki Duk se ne esce con un film atroce, violentissimo, ai limiti dell’inguardabilità, che ha ottenuto il massimo riconoscimento al festival di Venezia di quest’anno.
Io mi sento di dire che questo film estremo, che oltrepassa i limiti di sadismo autoriale di certo Lars von Trier (ad esempio di Antichrist) e di Haneke (da Funny Games a Amour) non è certamente la maggiore realizzazione del geniale regista coreano. Come già il penultimo “Dream”, il film è troppo involuto nella sua narrazione , che a tratti risulta difficile da seguire, la bellezza delle immagini e delle inquadrature e le situazioni simboliche che hanno caratterizzato a lungo l’autore coreano sono rare e risultano un po’ troppo costruite (quella sulla locandina è stata tagliata nel montaggio); viene dismessa ogni ambizione estetica al fine di riversare sullo spettatore un magma emozionale matriciale e indistinto, il dolore inemendabile dello spappolamento e dell’uccisione di inermi animali, del suicidio indotto, del suicidio-omicidio.
La cosa migliore del film, laterale e forse involontaria, è la rappresentazione ambientale di un quartiere di Seul, nel quale Kim Ki-Duk avrebbe avuto a suo tempo una breve esperienza lavorativa, fatto di piccolissimi laboratori di meccanica, i cui artigiani non riescono a sopravvivere, sono strangolati da un’usura illegale, e minacciati di scomparire anche per l’inesorabile avanzamento urbanistico dei grattacieli, vale a dire la grande economia finanziaria cui ci ha abituato la globalizzazione.
La storia del film è proprio quella di un violentissimo strozzino, esecutore implacabile di una mafia senza pietà, che subisce la vendetta della madre di uno degli insolventi usurai spinto al suicidio. La donna si spaccia per la madre dell’usuraio che l’avrebbe abbandonato alla nascita e alla fine dimostra, in un’escalation terribile, di essere ben più feroce e priva di sentimenti di pietà di quanto già non sia lui. Le donne, sempre oggetto, nei film di Kim Ki-Duk, di una violenza non sopportabile agli occhi occidentali, sono insomma all’occorrenza più crudeli e spietate degli uomini, oltre ad essere maestre nell’inganno e nella recitazione. Anche alcuni dettagli narrativi, spesso di un’atrocità irrimediabile, rinforzano questa tesi.
Non c’è in questo film alcuna forma di riscatto etica né estetica (come in Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera, il vero capolavoro di Kim Ki-Duk, ed in molti altri suoi film). Il risultato è una sorta di splatter senza alcuna distanziazione data dal genere, angoscia allo stato puro, che non lascia presagire niente di buono sul futuro personale e autoriale del regista.
Pietà. Regia di Kim-ki Duk con Lee Jung-jin, Jo Min-Su, Corea del Sud, 2012